Tutte le donne, almeno una volta nella vita, provano dolore durante il ciclo mestruale. Ma quando il dolore si fa ricorrente, intenso, limitante, è importante fermarsi ad ascoltarlo. Perché non sempre è “normale” soffrire.
Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Sara Scandroglio, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Responsabile SS Procreazione Medicalmente Assistita, Ospedale Filippo Del Ponte, ASST Settelaghi Varese.
Dolore e qualità di vita: un equilibrio che non va rotto
Il dolore mestruale ha un nome: dismenorrea. Nei primi anni dopo il menarca (il primo ciclo mestruale), può essere frequente avere cicli abbondanti e dolorosi. In questa fase della vita, infatti, una maggiore sensibilità pelvica e il processo di maturazione dell’apparato genitale femminile possono spiegare l’insorgenza del dolore.
Ma, anche in questi casi, se il dolore è tanto forte da impedire a una ragazza di andare a scuola o di fare sport, non va sottovalutato. Infatti, il dolore mestruale può avere un impatto concreto sulla qualità della vita, specialmente quando interferisce con lo studio, il lavoro, la vita sociale.
È importante sapere che la gestione del dolore è possibile: a partire da una semplice terapia antidolorifica assunta all’esordio dei sintomi, prima che si attivi la cascata infiammatoria, fino alla possibilità – se indicata – di una terapia ormonale personalizzata.
Quando il dolore cambia
Diversa è la situazione della giovane donna che, magari anni dopo il menarca, inizia a soffrire di un dolore pelvico nuovo, diverso, sempre più intenso. Quando la dismenorrea compare in età adulta e peggiora progressivamente, nel 90% dei casi può esserci una correlazione con l’endometriosi.
Il dolore mestruale, in questi casi, può irradiarsi alla zona lombare, agli arti inferiori, e può essere accompagnato da nausea, vomito, ipotensione e malessere generale. È fondamentale non sottovalutare questi segnali e “archiviarli” come “dolore mestruale normale”: è il momento di rivolgersi a un centro specializzato, che si occupa di endometriosi o di dolore pelvico, per andare a fondo e capire il problema.
Il percorso diagnostico: tutto parte dall’ascolto
Una diagnosi precoce e accurata inizia con l’ascolto attento del racconto della paziente. Il ginecologo raccoglie l’anamnesi completa e pone domande mirate: il dolore è presente anche durante i rapporti sessuali? E durante la defecazione? Seguiranno poi l’esame obiettivo, con la valutazione dei punti più dolenti, e l’ecografia, che può avvalersi anche del color-doppler o delle tecniche tri-e quadridimensionali, per un’indagine più approfondita dell’apparato riproduttivo.
La priorità è la qualità di vita
La gestione del dolore mestruale è un obiettivo prioritario per il ginecologo. È possibile intervenire con una terapia ormonale personalizzata e con antidolorifici assunti fin dai primissimi sintomi mestruali, prima che il dolore diventi insopportabile.
Il dolore mestruale non va minimizzato. Non è normale doversi assentare dal lavoro ogni mese, rinunciare a una gita, a una partita, a una cena. Non è normale dover “sopportare”.
Dare ascolto a questo dolore significa prendersi cura delle donne, proteggerne la quotidianità, salvaguardare il loro benessere, prevenire possibili complicanze in futuro.
Gli ultimi dati dell’ISS Istituto Superiore di Sanità indicano che in Italia 1,8 milioni di donne in età riproduttiva convivono con l’endometriosi. Si tratta di una patologia cronica e invalidante, come riconosciuto anche dal Parlamento nel 2023.
L’endometriosi, in particolare il dolore, può avere un enorme impatto sulla qualità della vita, sul funzionamento fisico, sulle attività di tutti i giorni e sulla vita sociale, sulla salute mentale e sul benessere emotivo. Tuttavia, la malattia è sotto-diagnosticata e le statistiche indicano che il tempo medio per una diagnosi corretta è di circa 7 anni, per via della natura poco specifica dei sintomi.
Ma alcuni studi recenti evidenziano un’incidenza crescente di casi diagnosticati, anche grazie a una maggiore consapevolezza della malattia
Uno degli aspetti su cui impatta la patologia è la qualità ovocitaria. Ne abbiamo parlato con il Dottor Fulvio Cappiello, ginecologo, responsabile del Centro di Procreazione Medicalmente Assistita – Gametica Clinica Mediterranea di Napoli.
Cos’è l’endometriosi e come viene classificata?
L’endometriosi è una condizione infiammatoria cronica estrogeno-dipendente che colpisce le donne nel loro periodo riproduttivo causando infertilità e dolore pelvico.
L’endometriosi è eterogenea e comprende diverse entità anatomiche come:
Endometriosi ovarica
Endometriosi peritoneale
Endometriosi infiltrante profonda
Mentre la prevalenza stimata dell’endometriosi è del 6%-10% nella popolazione femminile generale (in Italia 1,4% della popolazione femminile tra i 15-50 anni), si stima che il 35%-50% delle donne infertili sia affetto da questa patologia.
La comunità scientifica ha elaborato alcuni sistemi di classificazione standard e lo stadio dell’endometriosi è derivato da un punteggio cumulativo. Secondo la classificazione della American Society for Reproductive Medicine il sistema di valutazione considera le dimensioni delle lesioni endometriosiche nelle ovaie, nel peritoneo e nelle tube di Falloppio e la gravità delle aderenze in ciascuno dei siti sopra menzionati. l sistema di staging è stato suddiviso in quattro fasi:
I (da 1 a 5 punti, lieve),
II (da 6 a 15 punti, moderato)
III (da 16 a 30 punti, grave)
IV (da 31 a 54 punti).
Il punteggio ENZIAN è determinato dall’estensione dell’endometriosi evidenziata durante l’intervento chirurgico. La gravità della lesione è impostata su:
invasività < 1 cm per il grado 1
invasività da 1 a 3 cm per il grado 2
invasività > 3 cm per il grado 3.
Il sistema EFI ha come obiettivo di prevedere il tasso di gravidanza in pazienti con endometriosi documentata chirurgicamente che non hanno effettuato tentativi di gravidanza con la fecondazione in vitro (FIV). Il punteggio EFI viene calcolato sommando i punteggi storici e chirurgici e varia da 0 a 10 punti, dove 10 indica la prognosi migliore e 0 la prognosi peggiore.
Come riconoscere l’endometriosi?
I sintomi più comuni sono: forti dolori mestruali, dolore pelvico, dolore nei rapporti sessuali, flusso mestruale abbondante, infertilità, dolore nella minzione, costipazione o diarrea, depressione.
L’infertilità associata all’endometriosi può essere spiegata da diversi meccanismi non esclusivi:
Disfunzione delle tube di Falloppio
Infiammazione cronica della cavità pelvica, che può interrompere la sopravvivenza e la fecondazione dei gameti,
Interruzione dei processi fisiologici dell’impianto
Difetti immunologici
Anomalie ovariche (alterazione della quantità e/o qualità dell’ovocita, potenziale alterazione del microambiente ovocitario in donne affette da endometriosi correlata ad una variazione del profilo di espressione delle citochine)
È ampiamente dimostrato che la qualità degli ovociti possa essere un fattore importante di infertilità in queste pazienti.
Come si può studiare la qualità degli ovociti?
I fattori da considerare sono:
Alterazione della steroidogenesi
Alterazione dell’ambiente intrafollicolare
Cambiamenti morfologici generali
Anomalie del fuso mitotico
Compromissione della struttura mitocondriale
Si tratta di processi fisiologici molto complessi, che non descriveremo in dettaglio in questa sede, ma che danno l’idea di quanto ampio possa essere l’impatto dell’endometriosi su questi meccanismi e, di conseguenza, sulla qualità degli ovociti.
Qual è l’approccio più appropriato per la gestione dell’endometriosi?
La gestione dell’endometriosi deve tenere conto del fatto che la malattia è cronica e coinvolge il sistema riproduttivo. Di conseguenza, il trattamento e la consulenza dovrebbero mirare a preservare le possibilità di gravidanza per la paziente, anche se non è associata all’infertilità.
Da un recente studio condotto da ricercatori italiani emerge che nella maggior parte dei casi (94,2%) si ricorre alla crioconservazione degli ovociti per ragioni legate all’età, solo nel 2,1% dei casi per ragioni legate all’endometriosi.
La preservazione della fertilità attraverso la crioconservazione potrebbe rappresentare una valida opzione terapeutica per le donne affette da endometriosi che sono a rischio di progressione della malattia o necessitano di un intervento chirurgico per aumentare le loro future possibilità riproduttive.
Practice Committee of the American Society for Reproductive Medicine, 2004
Garrido N. et al. Follicular hormonal environment and embryo quality in women with endometriosis. Hum. Reprod. Update 6, 67–74 (2000)
Garrido, N., Pellicer, A., Remohi, J. & Simon, C. Uterine and ovarian function in endometriosis. Semin. Reprod. Med. 21, 183–192 (2003).
Coccia ME, Nardone L, Rizzello F. Endometriosis and Infertility: A Long-Life Approach to Preserve Reproductive Integrity. Int J Environ Res Public Health. 2022 May 19;19(10):6162. doi: 3390/ijerph19106162. PMID: 35627698; PMCID: PMC9141878.
“Mi chiamo Giulia, ho 35 anni. Ho una carriera ben avviata e promettente, una rete di solide amicizie, viaggio spesso per lavoro e per piacere. Finora non mi sono sentita pronta per diventare mamma, ho investito molto nella mia professione ma, soprattutto, non ho ancora incontrato la “persona giusta” con cui costruire una famiglia. Non escludo di diventare mamma in futuro, ma inizio a pensare che forse potrebbe essere già troppo tardi, alla mia età le probabilità di concepire un figlio iniziano a diminuire. Ne ho parlato con le mie amiche e una mi ha chiesto se non ho mai pensato alla crioconservazione degli ovociti, il cosiddetto social freezing.”
Per capire meglio in cosa consiste il social freezing ne abbiamo parlato con il Dottor Fulvio Cappiello, ginecologo, responsabile del Centro di Procreazione Medicalmente Assistita – Gametica Clinica Mediterranea di Napoli.
Cos’è il social freezing?
Per social freezing intendiamo il congelamento volontario da parte di una donna dei propri ovociti.
È una tecnica di crioconservazione degli ovociti che consente alle donne di preservare la propria fertilità per il futuro. Il processo prevede una fase di stimolazione ormonale, per facilitare lo sviluppo degli ovociti. Tali ovociti vengono poi prelevati, congelati e conservati in azoto liquido a -196°C.
In quali casi si effettua il social freezing?
Il social freezing si effettua in tre casi: per ragioni mediche, in caso di patologie oncologiche o per motivi cosiddetti sociali.
Normalmente le ragioni mediche riguardano quelle pazienti che presentano una patologia ovarica benigna come l’endometriosi che, soprattutto nelle donne molto giovani, può danneggiare l’ovaio e quindi il potenziale di fertilità di queste ragazze.
In una donna che deve essere sottoposta ad un intervento chirurgico per asportare delle cisti endometriosiche all’ovaio si effettua un congelamento pre-chirurgico degli ovociti. Si induce l’ovulazione, si prelevano gli ovociti e si congelano, per poi conservarli in azoto liquido. Poi si procede con l’intervento chirurgico. Questo perché quando si effettua un intervento – anche in laparoscopia – di asportazione di cisti endometrosiche sull’ovaio, inevitabilmente andiamo anche ad asportare una quota di tessuto ovarico sano e quindi a ridurre sensibilmente la fertilità di quella donna.
In caso di patologia oncologica
Il secondo caso, più importante ma anche più particolare, è quello dei casi di patologia oncologica. Al momento possiamo consigliare il social freezing a quelle donne giovani che purtroppo incorrono in carcinomi della mammella o in carcinomi ovarici. È importante sottolineare che sono state studiate almeno 2 – 3 tipi di terapia che possiamo effettuare in queste donne; esse non possono eseguire le terapie standard che effettuiamo nelle donne che fanno un ciclo di fecondazione in vitro, ma hanno bisogno di una struttura farmacologica particolare. Questo per evitare che, quando si induce l’ovulazione e si procede con il prelievo degli ovociti, si interferisca con la loro situazione oncologica.
Per scelta personale
Un terzo motivo per ricorrere alla crioconservazione degli ovociti, e sul quale si dibatte molto, è quello cosiddetto “sociale”. Si tratta di donne che in giovane età, 25-30 anni, decidono di congelare i propri ovociti per poi procrastinare la gravidanza. Normalmente la donna fa questa scelta per diversi motivi: perché vuole consolidare la sua la sua posizione economica, la sua posizione lavorativa, e magari vuole anche una maggiore stabilità affettiva. Non tutti concordano su questo approccio “sociale” alla crioconservazione degli ovociti, essenzialmente per motivi etici. Mi sembra interessante segnalare che negli Stati Uniti alcune aziende importanti come Apple e come Meta considerano il congelamento degli ovociti come n benefit per le proprie dipendenti. Sicuramente è un fenomeno sociale che sta prendendo piede più nel Paesi del Nord Europa, in America e in Australia, ma sicuramente è un nuovo modo di vedere la propria fertilità.
Esistono dubbi sulla crioconservazione degli ovociti?
Non sulla tecnica, ma la comunità scientifica sta ancora definendo alcuni criteri. Ad esempio, non ha ancora definito quale sia il numero “esatto” di ovociti da congelare, quindi non possiamo dire a una donna di congelarne 15, 20 o 30. Allo stesso tempo, trattandosi di una tecnica in uso da tempi relativamente recenti, attualmente non abbiamo numeri statisticamente significativi sulle gravidanze ottenute da donne che, ad esempio, hanno raggiunto i 40 anni, scongelato i loro ovociti congelati a 30 anni.
Dove si può effettuale la crioconservazione degli ovociti?
Questa tipo di tecnica a scopo “sociale” viene svolta nella maggior parte dei centri privati italiani di procreazione medicalmente assistita. La crioconservazione degli ovociti a scopo medico, invece, viene effettuata soprattutto nei centri pubblici di PMA. In Campania, ad esempio, c’è un’ottima rete di oncofertilità negli ospedali che si occupano di fecondazione in vitro.
Che il fumo di sigaretta fosse un nemico della fertilità femminile e un ostacolo al concepimento “naturale” è un’informazione consolidata e nota a tutti. Ma che le sigarette potessero essere un elemento nocivo anche per il successo di una gravidanza ottenibile attraverso le tecniche di fecondazione assistita non era una deduzione così scontata e immediata.
Lo studio
Uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Gynecological Obstretics Human Reproduction mette in luce gli effetti fortemente dannosi delle sigarette sull’esito delle tecniche di fecondazione assistita se la donna è fumatrice anche quando si sottopone a queste procedure.
Lo studio ha preso in esame 28 ricerche cliniche pubblicate in lingua inglese. Complessivamente, i dati di questi studi oggetto dell’analisi si riferivano a 5.009 donne fumatrici che si erano sottoposte a tecniche di fecondazione assistita e a 10.078 donne non fumatrici ricorse anch’esse a queste procedure per ottenere una gravidanza.
I risultati
L’analisi dei dati evidenzia con chiarezza quanto il fumo di sigaretta incida negativamente sul successo delle tecniche di fecondazione assistita e sul conseguente conseguimento della gravidanza. In particolare, i dati dimostrano che nelle donne fumatrici – rispetto alle non fumatrici – sono riscontrabili esiti significativamente negativi ed esprimibili come:
riduzione significativa del tasso di nascite di neonati vivi;
riduzione significativa del tasso di gravidanze cliniche;
riduzione significativa del numero di ovociti recuperati;
riduzione significativa del tasso medio di fertilizzazione;
aumento significativo del tasso di aborti spontanei per gravidanza.
In sostanza, lo studio condotto su questa ampia casistica dimostra che nelle donne il fumo di sigaretta non solo è causa d’infertilità ma ha anche un impatto significativamente negativo sugli esiti delle tecniche di fecondazione assistita.
Tale evidenza pone quindi le basi scientifiche per raccomandare fortemente alle donne di smettere di fumare sia in generale per questioni salutistiche sia per quelle che devono sottoporsi alle tecniche di fecondazione assistita: smettendo di fumare prima di sottoporsi a queste procedure procreative, le donne potranno difatti trarre enormi benefici, con maggior successo e probabilità di rimanere incinta e di coronare il desiderio di maternità.
Sessualità e infertilità sono correlate? La WHO World Health Organization definisce la sessualità come un aspetto centrale dell’essere umano, che abbraccia il sesso, l’identità di genere, i ruoli, l’orientamento sessuale, l’erotismo, il piacere, l’intimità, la riproduzione. Inoltre, la sessualità si esprime attraverso i pensieri, le fantasie, i desideri, ma anche con le credenze, le attitudini, i valori, i comportamenti, la pratica, i ruoli e le relazioni.
D’altro lato, sappiamo che l’infertilità è definita come la difficoltà a concepire dopo oltre 12 mesi di rapporti sessuali non protetti.
Abbiamo parlato di sessualità e infertilità con la Dottoressa Giulia Bertapelle, ginecologa e sessuologa clinica, impegnata nel campo della medicina della riproduzione presso l’Instituto Bernabeu di Venezia. Le abbiamo chiesto come sono correlate e quali possono essere le implicazioni all’interno della vita sessuale di una coppia quando si riceve una diagnosi di infertilità.
Qual è il rapporto tra sessualità e infertilità?
Se dovessimo rappresentare graficamente il rapporto tra sessualità ed infertilità, potremmo disegnare una freccia che collega queste due parole in ambo i versi: esistono infatti delle disfunzioni sessuali che possono ostacolare la coppia nell’avere rapporti sessuali completi, come ad esempio condizioni o patologie che determinano un dolore alla penetrazione o alcuni casi di disfunzione erettile e/o eiaculatoria, ma esiste anche un rapporto inverso che molto spesso non viene considerato e del quale si parla davvero troppo poco.
Per alcune coppie infatti avviene già una prima modifica nella frequenza e nella qualità dei rapporti, prima ancora di arrivare ad una diagnosi di infertilità, già nel momento in cui il rapporto diventa finalizzato al concepimento.
Se per alcune coppie l’aspetto prettamente ludico del rapporto viene mantenuto anche durante il periodo di ricerca di un figlio, per altre questo viene progressivamente a scemare, fino, a volte, a perdersi completamente.
Cosa cambia con dopo una diagnosi di infertilità?
Con l’arrivo di una diagnosi di infertilità la sessualità della coppia può modificarsi ulteriormente ed in modalità diverse anche in base al tipo di causa riscontrata durante la fase diagnostica.
In alcuni casi l’impatto sulla sfera sessuale può diventare così importante da determinare delle disfunzioni vere e proprie che prima non erano presenti e che purtroppo tendono ad essere messe in secondo piano dalla coppia stessa che durante l’iter di procreazione assistita è portata a concentrare tutte le energie nel percorso, mettendo in secondo piano altri aspetti della vita, tra cui quello legato alla sfera sessuale.
Esistono dei “momenti” nell’iter della PMA che possono incidere sulla vita sessuale della coppia?
Esistono poi dei momenti nell’iter della procreazione medicalmente assistita, sia diagnostici che terapeutici, nei quali il medico di medicina della riproduzione darà delle prescrizioni alla coppia che inevitabilmente potranno avere delle implicazioni sulla vita sessuale dei pazienti.
Pensiamo ad esempio quanto può essere difficile per un uomo anche solo fare uno spermiogramma, in un ambiente asettico nel quale evidentemente ginecologo, biologo, segretarie, infermiere ed ostetriche sanno cosa sta succedendo all’interno di quella stanza, o pensiamo a quanto può essere faticoso per la coppia avere dei rapporti programmati “oggi sì, domani no”, “oggi sì”, anche se magari non c’è desiderio, “domani no” anche se magari la coppia ne ha voglia.
Queste prescrizioni sono spesso necessarie per massimizzare le possibilità di successo e quindi di nato vivo, ma possono involontariamente implementare un meccanismo secondo il quale il rapporto o la masturbazione nel caso del partner maschili diventano più delle prestazioni che degli atti naturali e fisiologici all’interno della coppia.
Quali sono i suoi suggerimenti?
È molto importante che i professionisti della medicina della riproduzione siano sensibilizzati a prendersi carico anche della salute sessuale della coppia, oltre che di quella riproduttiva, in modo da identificare precocemente alcuni segnali d’allarme e lavorare prima di tutto sulla prevenzione o, quando siano già evidenziate al colloquio delle disfunzioni sessuali vere e proprie, indirizzare la coppia a specialisti di riferimento del settore.
L’intelligenza artificiale (AI) è senza dubbio uno degli argomenti più discussi e rilevanti del momento, nonostante la sua storia non sia così recente. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a un incremento esponenziale delle capacità di questa tecnologia, con una conseguente espansione in numerosi campi di applicazione. Tra questi, la medicina sta subendo un’influenza crescente da parte di questi sistemi complessi, suscitando interesse e curiosità tra scienziati di tutto il mondo.
Prima di approfondire le possibili applicazioni attuali e future in ambito medico, è importante chiarire cosa sia realmente l’AI e cosa possa fare (e non fare): ne abbiamo parlato con la Dottoressa Giulia Bertapelle, ginecologa e sessuologa clinica, impegnata nel campo della medicina della riproduzione presso l’Instituto Bernabeu di Venezia.
AI: facciamo chiarezza
Innanzitutto, è fondamentale sottolineare che il termine “intelligenza artificiale” comprende un vasto insieme di tecnologie che mirano a risolvere problemi per i quali normalmente sarebbe richiesta l’intelligenza umana. Tuttavia, questo termine può essere fuorviante, poiché gli algoritmi alla base dell’AI non “ragionano” come farebbe un cervello umano, anche se in parte si ispirano ai meccanismi del nostro sistema nervoso. All’interno dell’AI, troviamo diverse sottocategorie di tecnologie, tra cui:
Il Machine Learning: algoritmi che apprendono dai dati per identificare schemi e fare previsioni;
All’interno dell’insieme Machine Learning troviamo le Reti Neurali Artificiali (ANN): strutture ispirate al funzionamento del cervello umano, in grado di elaborare informazioni in maniera complessa;
Una sottocategoria di ANN è il Deep Learning: un metodo avanzato che utilizza grandi quantità di dati e potenza computazionale per migliorare l’accuratezza dei modelli predittivi.
Un esempio pratico di AI è rappresentato dai modelli linguistici di grandi dimensioni (Large Language Models, LLM), utilizzati per generare, comprendere e manipolare il linguaggio umano, come nel caso dei chatbot intelligenti e dei sistemi di supporto decisionale. L’avanzamento di questa tecnologia e la sua capacità di svolgere un vasto numero di compiti complessi rendono sempre più difficile, per l’utente medio, comprenderne il reale funzionamento e non cadere nell’illusione che questi sistemi siano in grado di ragionare come un essere umano. È invece fondamentale cercare di comprendere, almeno in parte, come funzionino questi sistemi, specialmente quando li utilizziamo. In ambito medico, sarà essenziale formare i professionisti affinché acquisiscano competenze specifiche per utilizzare l’AI in modo ottimale.
Il potenziale dell’AI per una medicina predittiva personalizzata
L’AI funziona in modo eccellente e sempre più accurato nel prevedere risultati sulla base di enormi dataset sui quali viene addestrata. Questo potenziale può essere sfruttato in ambito sanitario, in particolare nel campo della medicina predittiva personalizzata. Grazie alla capacità di analizzare grandi quantità di dati clinici, questa tecnologia consentirà di adattare i protocolli di screening, diagnosi e trattamento alle esigenze specifiche di ogni paziente, considerando molte più variabili di quante una mente umana possa gestire.
Inoltre, l’AI offre la possibilità di prevedere gli esiti dei trattamenti, analizzando le variabili individuali dei pazienti e identificando i fattori predittivi più significativi, senza trascurare elementi potenzialmente rilevanti. Ciò permette ai medici di adottare un approccio altamente individualizzato, migliorando i risultati clinici e riducendo i rischi associati a trattamenti non ottimali.
I modelli multimodali sono un altro esempio eccellente di applicazione dell’AI in campo medico. Si tratta di modelli di AI capaci di elaborare e integrare informazioni provenienti da più modalità di input, come testo, immagini, audio e video. In particolare, i modelli multimodali con componente visiva (vision models) possono essere sfruttati nella diagnostica per immagini per migliorare l’accuratezza e fornire supporto decisionale.
Per i medici, questa tecnologia offre strumenti avanzati che rendono più efficienti la raccolta anamnestica e l’iter diagnostico, ottimizzando il tempo dedicato ai pazienti. Inoltre, alcune applicazioni sono progettate per migliorare la qualità della comunicazione, facilitando il dialogo medico-paziente, migliorando la comprensione dei trattamenti proposti e garantendo maggiore trasparenza. Non solo, sistemi di AI potranno essere integrati nel percorso formativo dei medici per migliorare e facilitare il processo di apprendimento.
Per i pazienti, l’intelligenza artificiale rappresenta un valido supporto nel loro percorso terapeutico. Attraverso strumenti educativi e interattivi, l’AI rende i pazienti più consapevoli delle opzioni disponibili, migliorandone l’aderenza ai trattamenti e favorendo un’esperienza complessivamente più positiva.
Le applicazioni nella Procreazione Medicalmente Assistita
Nello specifico, nella Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) sono state proposte numerose applicazioni dell’AI, alcune delle quali sono già state tradotte in software e commercializzate. Dal punto di vista clinico, oltre agli algoritmi utilizzati in medicina predittiva personalizzata, esistono strumenti che mirano a ottimizzare alcuni aspetti del lavoro del medico esperto in PMA: la scelta del farmaco per la stimolazione ovarica controllata, il dosaggio, la scelta del giorno in cui somministrare il trigger dell’ovulazione e, di conseguenza, il giorno del prelievo ovocitario, l’esecuzione della follicolometria (la misurazione dei follicoli in crescita nelle ovaie della paziente) e la valutazione delle probabilità di successo della coppia.
Nel laboratorio di embriologia, l’AI potrebbe rivoluzionare le modalità di lavoro. Modelli predittivi avanzati possono essere utilizzati per: la selezione degli spermatozoi per l’iniezione intracitoplasmatica, la valutazione della qualità degli ovociti e l’identificazione degli embrioni con maggiori probabilità di successo. Inoltre, tecnologie automatizzate sono già state applicate a procedure estremamente delicate e complesse, come l’iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi (ICSI), riducendo al minimo la variabilità legata all’intervento umano.
Dal lato del paziente, l’AI potrà migliorare l’esperienza legata al percorso di PMA, riducendo i tassi di abbandono (dropout rate). Inoltre, sembra imminente la possibilità di fornire alle coppie strumenti per eseguire procedure diagnostiche complesse, come l’ecografia transvaginale per la follicolometria, direttamente a domicilio, offrendo un aiuto concreto per conciliare l’iter diagnostico-terapeutico con la vita lavorativa delle pazienti.
AI e pratica clinica: le sfide del futuro
Nonostante le straordinarie potenzialità, l’adozione dell’intelligenza artificiale presenta sfide significative. Tra i temi più controversi vi sono: la spiegabilità dei modelli, il consumo energetico, la responsabilità, la privacy, gli aspetti etici e sociali e, non ultimo, il tema economico.
Per garantire un’integrazione efficace dell’intelligenza artificiale nella pratica clinica, è necessario intraprendere una serie di azioni. La conduzione di studi clinici rigorosi è fondamentale per validare l’efficacia e la sicurezza delle applicazioni AI. Allo stesso tempo, è indispensabile sviluppare linee guida etiche che assicurino un utilizzo trasparente ed equo della tecnologia. Anche la formazione dei professionisti gioca un ruolo cruciale: medici ed embriologi devono essere preparati a utilizzare l’intelligenza artificiale in modo ottimale, comprendendone i limiti e le potenzialità.
L’intelligenza artificiale rappresenta una nuova frontiera per la PMA, offrendo strumenti avanzati che possono trasformare radicalmente il settore. Con un approccio etico e supervisionato, questa tecnologia ha il potenziale di realizzare progressi straordinari, migliorando i risultati per i pazienti e ottimizzando le risorse sanitarie.
L’ormone antimulleriano (AMH) è un importante indicatore della riserva ovarica che, a sua volta, è indicatore di fertilità della donna. Ha un ruolo fondamentale, perché regola la crescita e lo sviluppo dei follicoli nelle ovaie e impedisce che si sviluppino follicoli non ancora maturi.
Ci spiega bene il suo ruolo la Dottoressa Alessandra Tiezzi, ginecologa, Responsabile del Centro di Fecondazione assistita della CLINICA NUOVA RICERCA di Rimini.
Cos’è l’ormone antimulleriano
L’ormone antimulleriano è un importante indicatore di riserva ovarica, prodotto dalle cellule della granulosa che rivestono i follicoli nella fase iniziale del loro sviluppo. È un ormone importante, perché regola la crescita e lo sviluppo dei follicoli nelle ovaie e impedisce che si sviluppino follicoli non ancora maturi, evitando che questi ultimi crescano in maniera intempestiva e quindi causino alterazioni dell’ovulazione.
Qual è il suo ruolo?
L’ormone antimulleriano AMH svolge un ruolo molto importante nella fertilità.
Innanzitutto, è un ormone che non è influenzato dalle fluttuazioni cicliche, come invece lo sono l’FSH l’estradiolo; quindi, è un dato più costante della riserva ovarica e può essere utilizzato anche per predire la risposta alla stimolazione ovarica.
Spesso nei centri di PMA viene utilizzato per stabilire la dose iniziale di gonadotropine per stimolare la paziente, in quanto predice la risposta a questo tipo di stimolazione.
Se il valore di AMH e più alto, di solito si ha una miglior risposta e un maggior numero di ovociti: queste sono condizioni sicuramente positive, ma bisogna prestare attenzione per gestire l’aumentato rischio di iperstimolazione ovarica. Questo ci aiuta a capire qual è la dose migliore per gestire anche eventuali complicanze.
L’ormone antimulleriano ci aiuta anche a predire certe patologie: ad esempio, risulta molto più alto nelle donne con la sindrome della policistosi ovarica, e molto più basso in donne con un’insufficienza ovarica precoce o in menopausa precoce.
AMH ed età della donna
L’AMH ha valori diversi nelle varie età della vita e i valori normali di questo ormone sono compresi tra 1 e 4 nanogrammi su millilitro. In questo caso le pazienti hanno una buona riserva ovarica e, se sottoposte trattamenti di fondazione assistita, di solito hanno un recupero di un buon numero di ovociti.
Un valore superiore a 4 nanogrammi su millilitro è considerato elevato e di solito implica una buona riserva ovarica e un maggior numero di ovociti recuperati con i trattamenti di fecondazione assistita. Valori di molto superiori, invece, parliamo di 10-15 nanogrammi su millilitro, si trovano in patologie come la policistosi ovarica.
I valori che possiamo considerare bassi sono quelli compresi tra 0,5 e 1 nanogrammo su millilitro: in questi casi possiamo dire che la riserva ovarica della paziente è ridotta. Infine, valori molto molto bassi, inferiori a 0,5 nanogrammi su millilitro si rilevano nelle donne che di solito sono in premenopausa o in menopausa, o che hanno un fallimento ovarico precoce.
Come si dosa l’AMH
L’ormone antimulleriano AMH viene dosato con un prelievo di sangue, in qualsiasi momento del ciclo mestruale. Questo perché, come detto sopra, non è influenzato dalla ciclicità dalle fluttuazioni.
Quali sono i limiti dell’AMH?
Innanzitutto, è un valore che non predice in maniera assoluta la fertilità: questo perché la fertilità è influenzata da diversi fattori. Inoltre, non sostituisce altri test, ad esempio l’ecografia transvaginale per la conta dei follicoli antrali, ma anche test che riguardano la parte maschile. Infatti, dobbiamo sempre valutare anche la qualità del liquido seminale.
Come interpretare i valori
I valori di ormone antimulleriano vanno interpretati in un contesto clinico ampio ed è necessario fare sempre riferimento a uno specialista esperto in fertilità.
È comunque un ormone che può essere utilizzato anche ai fini della pianificazione familiare, quindi va tenuto sotto controllo, ad esempio, nelle donne che desiderano posticipare la gravidanza.
Inoltre, va monitorato nelle donne che già si stanno sottoponendo ai trattamenti di fecondazione assistita perché è importante per valutare la dose iniziale di farmaco, per valutare le possibilità di successo del trattamento.
Infine, è importante nei casi di diagnosi di insufficienza ovarica precoce o di menopausa precoce.
Per concludere, possiamo dire che l’ormone antimulleriano è soltanto una parte della valutazione complessiva della fertilità va sicuramente interpretato insieme ad altri valori e ad altri fattori, come l’età della donna, lo stile di vita, le sue abitudini, i fattori ambientali, il fumo.
Per questo, è importante che la donna si affidi non soltanto al risultato di questo esame, ma che consulti sempre un esperto in fertilità.
La riserva ovarica è un importante indicatore di fertilità della donna. Tende a diminuire con l’età, influenzando le possibilità di concepimento e quindi di gravidanza ed è influenzata da diversi fattori.
Vediamo quali, con la Dottoressa Alessandra Tiezzi, ginecologa, Responsabile del Centro di Fecondazione assistita della CLINICA NUOVA RICERCA di Rimini.
Che cos’è la riserva ovarica?
La riserva ovarica è intesa come la quantità e la qualità degli ovociti presenti nelle ovaie di una donna ed è un importante indicatore di fertilità femminile. Sappiamo che tende a diminuire con l’età limitando le possibilità di concepimento e di gravidanza. Sappiamo che il picco di massima fertilità femminile si verifica tra i 25 e i 30 anni; tra i 30 e 35 questo picco di fertilità inizia a diminuire progressivamente e, dopo i 35 anni, in modo molto marcato. Non diminuisce solo il numero degli ovociti, ma anche la qualità degli stessi.
Oltre l’età: gli altri fattori che influenzano la riserva ovarica
Un altro fattore molto importante è sicuramente la genetica, che ha un ruolo nella velocità con cui la riserva ovarica diminuisce. Ad esempio, ci sono alcune donne che proprio per fattori genetici vanno incontro ad una menopausa precoce, quindi ad un declino della fertilità anticipato rispetto alla media.
Altri fattori che influenzano la riserva ovarica possono essere i fattori ambientali, quindi l’inquinamento, l’esposizione a sostanze chimiche tossiche, oppure fattori legati allo stile di vita, ad esempio un’alimentazione scorretta, l’obesità.
Un fattore che sicuramente incide molto ed in maniera negativa è l’abitudine al fumo.
Ci sono poi condizioni mediche che possono influenzare la riserva ovarica: ad esempio l’endometriosi, le infezioni, l’essere sottoposte a trattamenti di chemioterapia o di radioterapia, oppure una patologia che conosciamo come policistosi ovarica.
Quali sono gli indicatori utilizzati per la riserva ovarica?
Indispensabile un’ecografia ginecologica – tendenzialmente viene fatta per via transvaginale ma quando questo non è possibile anche per via transaddominale. Serve per effettuare quella che si chiama conta dei follicoli antrali, cioè il numero dei follicoli nella fase iniziale del ciclo
Un test molto importante è il dosaggio dell’ormone antimulleriano, che viene effettuato tramite un prelievo di sangue. L’ormone antimulleriano è prodotto dai follicoli antrali e alti livelli di ormone antimulleriano indicano di solito una riserva ovarica migliore, mentre bassi livelli indicano una riserva ovarica ridotta. Bassi livelli di antimulleriano si trovano spesso in donne che hanno un esaurimento ovarico precoce, una menopausa precoce oppure che sono di età più avanzata
Un altro ormone che viene valutato è l’ormone follicolo stimolante FSH che, di solito, se ha un valore alto indica una riserva ovarica ridotta. Si valuta anche l’ormone estradiolo: se anche il suo livello è alto insieme a un valore alto di FSH, questo denota sicuramente una riserva ovarica ridotta
Cosa vuol dire avere una riserva ovarica ridotta?
La riserva ovarica ridotta implica una minore probabilità di ovulazione; quindi, una ridotta capacità di concepimento e una maggiore probabilità di avere pochi ovociti e di qualità ridotta. Con l’avanzare dell’età, inoltre, si ha anche un aumento delle anomalie cromosomiche quindi, anche in caso di gravidanza, ottenuta sia spontaneamente sia tramite fecondazione assistita, si osserva un maggior numero di aborti spontanei.
Cosa può fare una donna che ha una ridotta riserva ovarica?
Una donna che ha una ridotta riserva ovarica potrebbe senz’altro effettuare quella che si chiama crioconservazione degli ovociti o Social freezing, per avere modo di poter allungare i tempi di ricerca di una gravidanza; oppure, trattamenti ormonali di induzione dell’ovulazione multipla, con una successiva ricerca di gravidanza tramite dei trattamenti di fecondazione assistita.
Sicuramente è importante che la donna monitori sin da giovane la sua riserva ovarica tramite l’aiuto di uno specialista in fertilità perché vanno considerati i molteplici fattori che determinano poi il successo di una gravidanza.
L’infertilità è un problema che riguarda milioni di persone e ha effetti significativi non solo sulla salute fisica ma anche su quella emotiva, sociale ed economica. L’infertilità è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come l’assenza di concepimento dopo 12-24 mesi di rapporti mirati non protetti. In Italia è un fenomeno in crescita, che coinvolge circa il 15-20% delle coppie, mentre a livello globale il 10-12%.
L’indagine
I dati emersi dall’indagine ‘Il fenomeno dell’infertilità: percezioni e vissuti degli italiani’ condotta dall’Istituto Piepoli, e presentati durante il Congresso Nazionale 2024 della Società Italiana della Riproduzione (Sidr), sono un campanello d’allarme.
La ricerca ha rivelato che la maggior parte degli italiani riconosce l’infertilità come una difficoltà reale e trasversale, che non riguarda solo le donne ma coinvolge anche gli uomini in misura significativa. Sebbene ci sia una crescente consapevolezza del fenomeno, persiste una scarsissima conoscenza delle soluzioni disponibili e, soprattutto, dei costi e delle barriere che le persone devono affrontare per poter accedere alle cure.
Con il 74% degli italiani che considera la fecondazione assistita come uno strumento utile a contrastare il calo demografico, la domanda di un’azione concreta e di un maggior supporto da parte delle istituzioni è sempre più forte. Non si tratta semplicemente di una questione medica, ma di una vera e propria emergenza sociale.
In Italia, la natalità è in continuo calo, e le previsioni per il 2024 parlano di ben 200mila bambini in meno, un dato che segna un futuro sempre più incerto per il Paese. Questo fenomeno, che colpisce in modo crescente le nuove generazioni, è legato a una molteplicità di fattori: dall’età avanzata alla scarsa informazione, passando per gli stili di vita dannosi e l’inquinamento ambientale.
Si stima che solo il 25% della popolazione italiana abbia consapevolezza delle opzioni terapeutiche esistenti e, ancor di più, di come queste possano realmente supportare chi è colpito da infertilità. Le terapie, per quanto efficaci, rimangono un miraggio per tanti, spesso frenato da barriere economiche o culturali: le disuguaglianze nell’accesso ai trattamenti, che sono ancora condizionati da costi elevati e da una disparità regionale significativa, peggiorano ulteriormente la situazione.
Le cause percepite dell’infertilità
L’indagine condotta dall’Istituto Piepoli ha anche evidenziato come la maggior parte degli italiani (69%) percepisca l’infertilità come un problema diffuso e in continua espansione, che coinvolge entrambi i sessi. Questo dato, già significativo, assume contorni ancora più preoccupanti quando si analizzano le cause identificate dalla popolazione.
Se la causa principale è rappresentata dall’età avanzata, con il 39% degli italiani che la considera un fattore determinante, altre motivazioni non sono meno rilevanti. Gli squilibri ormonali (34%) e le malattie pregresse (29%) sono altre cause ritenute cruciali. A queste si aggiungono i fattori legati allo stile di vita, come il fumo (26%) e l’abuso di alcol (23%), ma anche fattori psicologici ed emotivi (24%), inquinamento e stress (23%).
Questo quadro suggerisce una crescente consapevolezza dei legami tra le abitudini quotidiane e la fertilità, ma al contempo evidenzia una grande difficoltà nel prevenire il problema. Si parla di infertilità come di un “problema moderno”, legato all’incapacità di modificare comportamenti dannosi, spesso legati alla frenesia della vita urbana o al peggioramento delle condizioni ambientali.
Ciò che emerge con chiarezza dall’indagine è l’urgenza di una maggiore informazione e sensibilizzazione, in modo da ridurre il divario tra consapevolezza e azione. La consapevolezza sulle cause dell’infertilità, infatti, non basta: è fondamentale che i cittadini ricevano un supporto concreto, non solo in termini di accesso a trattamenti ma anche in termini di educazione alla salute riproduttiva.
Il futuro della fertilità in Italia
In un contesto così complesso e frammentato, le aspettative degli italiani sono chiare e forti. Secondo l’indagine, la maggior parte della popolazione ritiene che la risposta al calo demografico e alle difficoltà legate all’infertilità debba passare anche da un’azione concreta sul fronte dell’accessibilità e della sensibilizzazione.
Ben il 36% degli intervistati ha indicato la necessità di facilitare l’accesso ai trattamenti attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, mentre il 34% sottolinea l’importanza di formare i medici per affrontare al meglio la patologia. Altri suggeriscono di incrementare il numero di centri specializzati e di destinare più risorse alla ricerca medica (29%), elementi tutti imprescindibili per garantire un reale miglioramento.
L’infertilità non può essere più vista come una questione privata o una difficoltà da affrontare in solitudine. Occorre un’educazione alla fertilità che parta dalle scuole e che prosegua nelle campagne di sensibilizzazione. Il tema deve essere affrontato in modo aperto e informato, per ridurre lo stigma e la vergogna che spesso circondano chi non riesce ad avere figli.