Tag: procreazione assistita

Qualunque forma essa prenda, la diagnosi d’infertilità scuote le radici profonde dell’immagine di sé costituendo un’esplosione emotiva che necessita, quasi sempre, di un intervento psicoterapico, volto ad aiutare le persone a superare l’angoscia, il dolore, la deprivazione.
L’intervento psicoterapico ha lo scopo, in primis, di spingere la coppia verso una ridefinizione dell’identità, incanalando e sublimando il bisogno di prendersi cura verso un’immagine più libera, radicandola nelle personali capacità creative, piuttosto che non restringendola alle sole capacità procreative.

 

L’intervento psicoterapico deve servire anche a scindere atto sessuale e fecondazione

Un’altra funzione che ha l’intervento psicoterapico, all’interno dei percorsi di PMA, consiste nell’aiutare la coppia a recuperare l’intimità sessuale inevitabilmente violata dalle tecnologie. Molto spesso il ricorso alle tecniche di PMA si ripercuote negativamente sulla vita sessuale della coppia, con conseguente calo della libido in entrambi i sessi, fino alla disfunzione erettile nell’uomo e con una riduzione della fertilità nella donna. L’elaborazione della separazione tra atto sessuale e fecondazione è un punto cruciale dell’intervento psicoterapico che può condurre ad accettare una declinazione della sessualità fondata sul senso di appartenenza affettiva e a facilitare il superamento del vissuto mortifero connesso a una generatività desessualizzata.

 

Anche dopo la nascita del figlio l’intervento psicoterapico serve a gestire sentimenti complessi

Inoltre, il grado di elaborazione da parte degli adulti dei vissuti angosciosi connessi alla PMA, induce a ritenere altamente opportuno l’intervento psicoterapico specifico per le coppie anche successivamente alla nascita del figlio così tanto atteso, sia perché la realizzazione del desiderio costringe i genitori a confrontarsi con quel groviglio di sentimenti complessi che l’insuccesso riproduttivo aveva accantonato, sia perché i bambini voluti caparbiamente sono esposti più degli altri al rischio di rimanere soffocati in un rapporto esclusivo con i genitori, in particolare con la madre, privati della possibilità di accedere ad altri investimenti relazionali.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Che tipo di supporto psicologico può essere indicato dopo la nascita di un bambino nato grazie a una delle tecniche di procreazione medicalmente assistita? Come spiegare al figlio la sua storia?

 

La coppia che riesce con successo ad avere un figlio grazie all’aiuto delle tecniche di PMA difficilmente si pone il quesito su cosa dire al proprio figlio rispetto alla storia procreativa. Tuttavia capita che alcune coppie chiedano aiuto a uno psicologo per capire cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA rispetto alla sua origine. Il problema sotteso a tale quesito è rappresentato dal segreto, non dal suo contenuto. Come ricorda Winnicott: “I bambini non chiedono che venga loro risparmiata la verità, qualunque essa sia, ma che gli venga consegnata con tatto e onestà”.

 

Cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA? Solo la verità espressa con delicatezza e modi idonei alla sua età

“Mamma e papà ti hanno desiderato talmente tanto che, visto che tardavi ad arrivare, hanno chiesto aiuto a un dottore perché aiutasse i due semini, della mamma e del papà, a incontrarsi e a restare insieme, perché tu potessi crescere nella pancia della mamma per poi nascere e farti abbracciare anche dal papà”. Si tratta di una storia del tutto naturale, che non si discosta tanto dal suo iter fisiologico e del tutto semplice ed esaustiva da raccontare a un bambino.

 

Per molte coppie cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA nasconde quesiti più complessi

Tuttavia, capita che alcune coppie che hanno avuto un figlio grazie ad aiuti esterni, si pongono alcuni quesiti rispetto a cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA: “Cosa diremo a nostro figlio?”. Una domanda del genere potrebbe, tuttavia, nascondere questioni diverse, più personali, relative alla storia della coppia stessa. Dietro a ogni singola storia dell’individuo c’è un “mandato” generazionale inconsapevole, ossia delle aspettative di solito trasmesse dalla propria famiglia di origine sul ruolo che quell’individuo avrà nella storia familiare. Se si instaura un “gap” tra le aspettative implicite degli altri familiari e quello che l’individuo riesce a realizzare, si insinua nella persona una dissonanza emotiva che non le consente di godere appieno di quello che invece è stata capace di realizzare. Compito del clinico è interessarsi con rispetto ai quesiti che pongono le persone e saperle guidare a ritrovarsi all’interno di un percorso per alcuni versi divergente rispetto a quello atteso.

 

Situazione più complessa è spiegare al proprio figlio che è nato grazie all’eterologa

Questione del tutto diversa è quella che pone una coppia che ha fatto ricorso a una fecondazione eterologa. Qui il quesito su “cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA” o meglio da eterologa, si affaccia abbastanza precocemente nella coppia, fin dalle prime fasi decisive rispetto al percorso da intraprendere. Anche in questo caso non ci sono risposte identiche per tutti, la risposta va costruita insieme alla singola coppia rispettando quella che è la storia familiare che la coppia si porta dietro. Il clinico deve intercettare il significato che rappresenterebbe per quella coppia avere un figlio con l’aiuto di un gamete esterno alla coppia stessa.

 

Occhio a “risposte facili” trovate sul web: ognuno ha la sua storia e necessita di risposte diverse

Spesso il web spinge le persone a ricercare risposte immediate a ogni singolo problema. Nell’ambito delle questioni psicologiche, soprattutto, bisogna diffidare da risposte predefinite. “Quello che è meglio per me potrebbe non essere buono per te”. Il ruolo dello psicologo è quello di saper ascoltare con orecchio esperto cosa gli sta chiedendo veramente quella coppia ed aiutarla a costruire insieme una risposta, la più personale possibile.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione lungo

Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVET di stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione corto

Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.

Dott. Placido Borzì

Per un corretto iter diagnostico il primo step fondamentale per il corretto approccio terapeutico nella coppia infertile così come in ogni atto medico, è il corretto inquadramento diagnostico. Innanzitutto è necessario acquisire i dati anamnestici e clinici di entrambi i partners.

Per la donna, ad esempio, è fondamentale conoscere:

  • l’anamnesi familiare (casi di menopausa precoce, patologie dell’apparato genitale, mammarie, dismetabolismi, patologie legate alla coagulazione, anomalie cromosomiche e/o genetiche, patologie autoimmuni)
  • l’anamnesi personale (età, indice di massa corporea, tabagismo, alcolismo, uso di sostanze stupefacenti, allergie a farmaci, dismetabolismi, patologie autoimmuni, trombofilia, pregressi ricoveri e/o interventi, contatti professionali con sostanze tossiche, eventuali terapie in atto)
  • l’anamnesi ginecologica (precedenti gravidanze, annotazione sui cicli: durata, quantità, intervallo, eventuale dismenorrea e dispareunia, pregressi interventi, durata dell’infertilità, precedenti tentativi di PMA e pregressi cicli di stimolazione, disturbi della sfera sessuale quali riduzione della libido, vaginismo, anorgasmia…).
  • Infine importante è l’esame obiettivo (valutazione genitali esterni, visita bimanuale, valutazione di vagina e cervice dopo apposizione di speculum).

Per l’uomo è necessario acquisire informazioni su:

  • età
  • durata dell’infertilità
  • abitudini di vita (alcolismo, tabagismo, uso di sostanze stupefacenti, eventuali terapie in atto, possibili contatti professionali con sostanze tossiche)
  • pregressi episodi febbrili di lunga durata, ricoveri e/o interventi
  • disturbi della sfera sessuale (eiaculazione precoce, impotenza coeundi, assenza di eiaculazione).

Una volta acquisite queste informazioni e prima di procedere con qualunque tipo di metodica di procreazione medicalmente assistita, entrambi i partners dovranno sottoporsi ad una serie di esami per completare l’iter diagnostico.

La donna, per un corretto iter diagnostico, dovrà sottoporsi ad una ecografia pelvica per potere valutare l’eventuale presenza di quadri patologici (miomi uterini, cisti ovariche, dismorfismi uterini, infiammazioni pelviche, endometriosi…). L’ovulazione sarà valutata mediante un monitoraggio ecografico e la riserva ovarica mediante la conta dei follicoli antrali; un PAP test e i tamponi cervicali consentiranno di escludere la presenza di infezioni. Fondamentale è il dosaggio ormonale al terzo giorno del ciclo per potere valutare lo stato funzionale delle ovaie e la riserva ovarica. La valutazione della cavità uterina e della pervietà tubarica verrà effettuata mediante isteroscopia ed isterosalpingografia o isterosonosalpingografia 3D.

L’uomo deve iniziare il suo iter diagnostico con uno studio del liquido seminale mediante spermiogramma e spermiocoltura per valutare eventuali alterazioni dei parametri seminali e/o infezioni; qualora questi fossero alterati dovrà proseguire l’iter diagnostico con una visita andrologica, ecografia prostatica, dosaggi ormonali. Infine, ad entrambi i partners verrà richiesto lo studio del cariotipo e accertamenti necessari ad escludere lo stato di portatore di anemia falciforme o di fibrosi cistica e/o altre anomalie. Alla donna, in taluni casi, è richiesto anche la valutazione della possibile trombofilia genetica ed autoimmunità mentre all’uomo la ricerca della microdelezione del cromosoma Y.

Dott. Alessandro Giuffrida

Le pazienti sottoposte alle procedure di stimolazione ovarica possono essere definite pazienti poor responder e hyper responder.

 

Le possibilità di successo delle diverse procedure di stimolazione ovarica variano in base all’età e alle caratteristiche delle singole pazienti.

 

Una ridotta risposta al protocollo di stimolazione: le poor responder

Si definiscono pazienti poor responder coloro che hanno appunto una ridotta risposta al protocollo di stimolazione ovarica e dunque con una riserva ovarica ridotta.
Si tratta di uno dei problemi maggiori nelle procedure di procreazione medicalmente assistita, in quanto la scarsa risposta sembra rappresentare un fattore prognostico sfavorevole per cicli successivi abbassando notevolmente la possibilità di concepimento. Va sottolineato che i criteri d’identificazione di scarsa risposta ovarica non sono uniformi: nella maggior parte dei casi le poor responder vengono identificate in base al numero dei follicoli pre ovulatori reclutati o sul numero di ovociti prelevati. Non c’è però consenso sul numero soglia: si va da 2 a 5 per i follicoli e da 3 a 5 per gli ovociti.

 

Alto numero di follicoli prodotti: le hyper-responder rischiano l’iperstimolazione ovarica

Esiste poi un gruppo diverso di pazienti definite hyper-responder, che producono un alto numero di follicoli anche con basse dosi di gonadotropine e richiedono, pertanto, una gestione più attenta al fine di evitare il rischio d’incorrere in una vera e propria patologia definita sindrome da iperstimolazione ovarica (ovarian hyperstimulation syndrome – OHSS). Si tratta di una patologia causata dai farmaci utilizzati per indurre l’ovulazione. Va però altresì chiarito che la sindrome non è una necessaria conseguenza della terapia di stimolazione ovarica, si tratta anzi di un’evenienza eccezionale, e che può essere prevenuta riducendo le stimolazioni dell’ovaio con dosaggi delle gonadotropine più bassi di quelli abituali.

Dott. Placido Borzì

L’infertilità può essere causa di depressione: mina il “progetto bambino” della coppia, isolandola

 

Diversi sono i vissuti psicologici che si sviluppano in seguito alla diagnosi d’infertilità o ancora peggio di sterilità. Indubbiamente l’infertilità può essere causa di depressione perché il mancato raggiungimento dello scopo “diventare genitore” nella maggior parte dei casi provoca veri e propri stati depressivi che coincidono con il fallimento e la perdita di un sogno, sentimenti di ansia, di colpa, isolamento, perdita di interessi, difficoltà di concentrazione, pensieri negativi, difficoltà del sonno e cambiamenti importanti nelle abitudini alimentari e sessuali.

 

Un segreto che isola socialmente e mina la coppia: l’infertilità può essere causa di depressione

Durante l’ovulazione della donna, la coppia vive l’ansia di un rapporto sessuale programmato finalizzato a procreare, all’arrivo della mestruazione arriva lo sconforto determinato dall’ennesimo fallimento. Le coppie si sentono diverse, non riescono in una cosa del tutto naturale, sviluppano sentimenti di vergogna e di colpa. Dunque l’infertilità può essere causa di depressione e diventare un segreto che li appesantisce e li isola dalle relazioni sociali. Si riscontrano tentativi di evitamento delle coppie con bambini e si osserva la preferenza per coppie simili. Spesso tali vissuti ricadono anche sull’equilibrio della coppia stessa. L’isolamento non si osserva soltanto in relazione agli “altri”, intesi quelli al di fuori della coppia, ma anche nei confronti del partner stesso, che talvolta viene tagliato “fuori”. Sempre più spesso la coppia si chiude rispetto al compagno/a, lo esclude dalle proprie visite specialistiche vissute come un peso. La coppia è messa a dura prova di resistenza. Tutto quello che la coppia ha costruito finora, sembra scomparire, non esistere più. La coppia deve rielaborare una perdita, quella di essere genitore.

 

L’infertilità può essere causa di depressione perché distrugge “il progetto bambino” che abita in noi da sempre

Prima ancora di nascere e di essere concepito, il bambino della coppia esiste nel loro immaginario. Durante l’infanzia, i bambini fantasticano di avere a loro volta un bambino nella pancia, il che corrisponde al desiderio di essere uguali ai loro genitori. L’infertilità può essere causa di depressione perché quando questo progetto non si realizza in età adulta è necessario elaborare un lutto come la perdita di un progetto importante, che affonda le sue radici nell’infanzia. A questo punto la coppia ha bisogno di un intervento specialistico che l’aiuti a ristrutturare la percezione di sé e di coppia.

 

Se la coppia sceglie la PMA occorrerà un supporto psicologico sin dall’inizio del percorso

Il fatto che l’infertilità può essere causa di depressione rende fondamentale necessità di attivare, per le coppie che accedono a un percorso PMA (procreazione medicalmente assistita), spazi di consulenza psicologica rivolti alla persona e alla coppia stessa. Questo significa garantire una consulenza alle persone prima di iniziare le singole procedure diagnostiche. Le coppie non devono soltanto essere informate, ma devono poter avere la possibilità di maturare un’accettazione consapevole della tecnica proposta.

Nasce quindi la necessità per lo psicologo di affiancare il medico fin dai primi colloqui. Poter osservare come le coppie rispondono fin da subito al carico emotivo che la PMA comporta significa, per lo psicologo, identificare precocemente le coppie più a rischio, quelle che necessitano di un maggiore e tempestivo intervento psicologico. In questo senso l’attività di consulenza non ha esclusivamente finalità terapeutica, ma anche carattere decisionale per le successive tappe da intraprendere. Lo psicologo comincerà a interessarsi alle credenze di quella coppia, cercherà di comprendere quale stile di risposta (coping) utilizza quella coppia solitamente nelle situazioni ansiogene e stressanti, cercherà di mettere in relazione i loro pensieri con le loro emozioni, tentando di anticipare come tutti questi vissuti potrebbero ricadere sulle relazioni. Lo psicologo proverà a prendere in considerazione tutti questi aspetti della persona con lo scopo principale di tenere la coppia in equilibrio, in una fase estremamente faticosa e turbolenta.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Intraprendere la fecondazione eterologa: luci e ombre di un “salvagente” delle gravidanze fino a poco fa ritenute impossibili

 

Intraprendere la fecondazione eterologa rappresenta una possibilità per la coppia con diagnosi di sterilità. La legge 40/2004 in materia di Procreazione medicalmente assistita (Pma) prevedeva, fino a due anni fa, l’utilizzo esclusivo di tecniche di tipo omologo (quelle cioè che utilizzano seme e ovociti della stessa coppia).

 

9 aprile 2014, una data storica: via libera della Consulta a intraprendere la fecondazione eterologa in Italia

Il 9 aprile 2014 la Corte Costituzionale ha dato il via libera ad intraprendere la fecondazione eterologa in Italia, attraverso una modifica (sentenza 162) delle linee guida previste in materia di Pma: quando uno dei due partner è sterile, è possibile arrivare a una gravidanza attraverso l’utilizzo di un gamete, un ovulo o uno spermatozoo, di una terza persona, cioè il donatore.

L’accesso alla fecondazione eterologa è stato inserito dalle varie regioni nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) e prevede per la coppia il pagamento di un ticket. Il permesso legislativo di accedere alla fecondazione eterologa apre un nuovo scenario emotivo per le coppie. Se fino a qualche anno fa, per una coppia impossibilita a procreare, la legge prevedeva come unico diritto alla genitorialità l’adozione e/o l’affidamento (Legge 149/2001), questo ampliamento di orizzonti sconvolge, in un certo senso, la psicologia della coppia sterile.

I dubbi sulla difficile scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa

A questo punto dobbiamo chiederci: quali fasi emotive precedono la scelta del percorso da intraprendere? Che differenze ci sono sul piano emotivo tra adottare un bambino oppure procreare un figlio decidendo di intraprendere la fecondazione eterologa? Quali vissuti si generano nella coppia? Come viene vissuta la scelta di intraprendere la fecondazione eterologa da una coppia con problemi oncologici? Cercherò di rispondere ai vari interrogativi, partendo dal concetto di sterilità, pur nella consapevolezza che, in Italia, esistono poche ricerche scientifiche sull’argomento “eterologa”, quindi ancora pochissimi risultati utili a orientare le risposte su un’evidenza scientifica.

Distinguiamo tra diagnosi di sterilità e d’infertilità: quali conseguenze psicologiche

La diagnosi di sterilità differisce innanzitutto profondamente da quella d’infertilità.

Una coppia infertile è una coppia che non è stata in grado di concepire dopo 12/18 mesi di rapporti sessuali intenzionalmente fecondi (2-3giorni/settimana) le cui cause sono ancora da individuare. La coppia sterile è una coppia nella quale esistono delle cause accertate che riguardano uno o entrambi i coniugi, per cui esiste una condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione. Esiste una diagnosi d’incapacità biologica da parte della coppia di contribuire al concepimento. In Italia sono circa il 20% le coppie che arrivano a un centro di PMA dove viene fatta una diagnosi di reale sterilità. Alla diagnosi segue un periodo turbolento per la coppia in cui si alternano solitamente tre fasi: accettare di non potere, accettare di dover chiedere aiuto e “ristrutturare” la propria identità personale e di coppia.

La dura fase di accettazione è il primo passo per chiedere aiuto e ridefinire la propria identità

La prima fase ha a che fare con l’elaborazione della perdita del progetto di genitorialità. La coppia vive la frustrazione di non essere capace di progredire nel proprio ciclo vitale. La coppia sterile perde improvvisamente la prospettiva di poter evolversi da coppia coniugale a coppia genitoriale e vede svanire un progetto che era solitamente “il progetto” della propria vita: quello di avere un figlio. Come succede quando viviamo un lutto importante, la reazione emotiva rispetto a una perdita è caratterizzata da varie fasi che passano dal senso d’incredulità alla disperazione, dalla rabbia alla rassegnazione e quindi alla consapevolezza che le cose sono immutabili ed è necessario accettarle per quello che sono. Accettare di non potere è un passo necessario per poter chiedere aiuto. La coppia ha bisogno che qualcuno la guidi nella fase di ristrutturazione della propria identità.

Riuscire a superare il vissuto di fallimento e il senso d’inferiorità rispetto all’altro (partner) o agli altri (coppie fertili), sentendosi ancora uomo o donna nonostante la propria sterilità, è fondamentale per poter rinnovare il proprio progetto iniziale verso nuove prospettive. A questo punto la coppia sterile può decidere di adottare, d’intraprendere la fecondazione eterologa oppure di rimanere soltanto coppia per sempre.

Intraprendere la fecondazione eterologa offre alla coppia l’opportunità di vivere la gravidanza

Decidersi a intraprendere la fecondazione eterologa, permette alla coppia di riparare la diagnosi di sterilità attraverso una procreazione non solo affettiva, come avviene nell’adozione, ma anche biologica.

L’eterologa permette, infatti, alla coppia di viversi l’esperienza della gravidanza, di seguire la crescita del proprio bambino fin dai primi momenti della vita prenatale, a partire dal risultato, tanto atteso del test di gravidanza, fino al suo monitoraggio attraverso le visite ecografiche. Tuttavia, il donatore o la donatrice alterano la normalità del processo di procreazione a tal punto da generare talvolta, nell’uomo e nella donna “riceventi”, sentimenti ambivalenti molto simili a quelli vissuti dalla coppia adottiva. Il sentimento di gratitudine si alterna a fantasie che percepiscono il donatore come una figura potente, giovane e fertile. Ne consegue, per il ricevente, un senso d’inferiorità e un vissuto di esclusione. L’uomo e la donna possono vivere tali emozioni in modo differente a seconda del ruolo che rivestono in tale processo.

La donna, anche quando si vive come la causa della sterilità di coppia, attraverso la scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa ha la possibilità di superare il vissuto del fallimento procreativo, identificandosi con un corpo capace di ospitare, contenere e alimentare. La funzione materna, pur castrata della sua capacità generativa iniziale, si riinserisce immediatamente nel percorso procreativo, attraverso la funzione contenitiva e nutritiva dell’utero ospitante.

L’ovodonazione per l’uomo può essere vissuta come minaccia alla propria paternità

Nel caso dell’ovodonazione la donna può respingere così l’insidia dell’intruso. Quando è l’uomo ad avere una diagnosi di sterilità, ricorrere a un donatore può rappresentare una minaccia per la propria identità maschile all’interno della coppia. L’esclusione della sessualità genitale o l’intrusione in essa di elementi estranei tende a deresponsabilizzare l’atto creativo, evocando nell’uomo più spesso che nella donna, fantasmi di onnipotenza” (Passarelli C, 2002) e di persecuzione. Un po’ similarmente a quanto avviene per la coppia adottiva, si sviluppano fantasie sul genitore biologico che può essere vissuto come una minaccia alla propria paternità e il partner, poiché genitore biologico, può venire vissuto in vantaggio rispetto al nascituro.

In questi termini, la coppia adottiva vive un vantaggio: entrambi i partner sono estranei alla storia iniziale del bambino, per cui il vissuto di esclusione accomuna e unisce i genitori adottivi, anziché dividerli.

Nei pazienti oncologici intraprendere la fecondazione eterologa è una conquista importante

La situazione è diversa quando a intraprendere la fecondazione eterologa è una coppia con problemi oncologici. La preservazione della fertilità nei pazienti oncologici, attraverso la conservazione degli ovociti, o del liquido seminale, prima di effettuare il trattamento chemioterapico, è una conquista importante della medicina degli ultimi anni. Tuttavia non è sempre una scelta percorribile a causa delle varie difficoltà che la malattia oncologica comporta. Per  esempio, sebbene nell’uomo la preservazione dei gameti, non implichi un ritardo nell’inizio del trattamento antitumorale, alcuni pazienti non hanno il tempo per eseguire raccolte plurime, limitando così i campioni di eiaculato disponibili.

Inoltre la crioconservazione riduce la qualità del liquido seminale per cui è possibile che non ci siano spermatozoi utilizzabili dopo scongelamento. Tra le tecniche di crioconservazione per la donna, l’unica che abbia dimostrato risultati riproducibili, oltre alla crioconservazione degli embrioni vietata in Italia dalla legge 40/2004, è la crioconservazione di ovociti maturi, tecnica che richiede dei tempi non sempre disponibili. Intraprendere la fecondazione eterologa, quindi tramite donatore esterno alla coppia, rappresenta, spesso, l’unica possibilità anche per le coppie con una storia di malattia oncologica.

Tuttavia, i vissuti psicologici, che si sviluppano in questi casi, presentano delle differenze rispetto a quelli che vive normalmente una coppia sterile senza una causa oncologica. Se la coppia sterile vive il sentimento della “vergogna” nel percepirsi ingiustamente diversa rispetto agli altri e sviluppando comportamenti d’isolamento rispetto al mondo degli amici e talvolta anche dei familiari, la coppia con storia oncologica si ritiene fortunata per essere riuscita a vincere la malattia e vive la mancanza del gamete, non come una vergogna legata al Sé, al senso d’identità: “sono una persona sterile”, ma come un evento fortuito, che non dipende dal Sé, ma da un evento esterno di cui si è vittima.

La coppia con storia oncologica vive il donatore come una figura salvifica

Nel 1954 Julian B. Rotter, uno psicologo statunitense, descrisse il costrutto “attribuzione causale interna/esterna” (Locus of control) per indicare la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti da suoi comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà. Il senso di attribuzione causale esterna alla propria sterilità protegge la coppia con storia oncologica da sentimenti di vergogna e bisogno di isolamento. La scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa, in questi casi, viene affrontato con maggior naturalezza, quasi come una delle tante medicalizzazioni già vissute nei reparti di oncologia. Sono persone che hanno ricevuto trasfusioni di sangue e talvolta veri e propri trapianti. Il donatore, da queste coppie, viene vissuto come una risorsa indispensabile, una figura salvifica e non una minaccia alla propria identità.

La coppia può anche scegliere di rinunciare alla genitorialità valorizzando ciò che ha

La reazione emotiva della coppia alla sterilità dipende sostanzialmente dalla sua capacità di far fronte alle difficoltà. In psicologia si utilizza il termine “resilienza”, intesa come quella capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti. Le risposte degli individui alle malattie sono chiaramente diverse a seconda, sia delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa, che delle caratteristiche personali, intese come stili cognitivi, emotivi e relazionali.

È importante per la coppia poter valutare, come possibili alternative alla procreazione e all’adozione, il non avere figli, approfondendo i propri vissuti di accettazione o di rifiuto in merito alla mancata genitorialità. La coppia può decidere di rinunciare al progetto della procreazione, accettare di non avere figli, restando una coppia per sempre. Per compiere al meglio tale processo, è di grande aiuto cercare di valorizzare quello che uno ha, in termini di amicizie, relazioni, progetti e interessi, piuttosto che su quello che non si ha, riprogettando il proprio futuro attraverso nuove aspettative.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Le ragioni di abbandono in PMA, in linea generale, sono principalmente attribuibili a stress psico-fisico, a vari tipi di paure, oltre a scarsa fiducia nel centro e nello staff medico.
Va detto che le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) forniscono elevate probabilità cumulative di gravidanza, ma a dispetto di queste buone possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, molte coppie, per una propria decisione, scelgono di non seguire il trattamento in maniera continuativa, quindi per ragioni che non sono di ordine medico né relative ai costi dei trattamenti stessi. Anzi, molte volte si tratta di pazienti a buona prognosi e in grado di sostenere il peso economico delle terapie.
Inoltre è importante evidenziare questi dati:
• circa la metà delle coppie infertili non ricorre a trattamenti per l’infertilità;
• un terzo delle coppie abbandona dopo il primo fallimento FIVET/ICSI;
• il 1° ciclo è quello più favorevole sui risultati, ma più tentativi aumentano le probabilità di arrivare alla gravidanza;
• la percentuale di bambini nati da tecniche di PMA è il 22% per ogni ciclo iniziato e può raggiungere il 50% se i pazienti si sottopongono ad un numero ottimale di cicli (3);
• esiste un modello teorico secondo il quale il Centro di PMA registrerebbe circa il doppio di gravidanze se tutte le coppie senza successo fossero disposte a concludere 7 cicli di PMA.

Le principali ragioni di abbandono in PMA? Stress emotivo e fisico (Global Burden of Disease)

Ma quante sono le coppie che abbandonano? Il dato è estremamente disomogeneo. Nell’ambito della letteratura scientifica può variare dal 7 all’80 per cento. In media il numero di abbandono in PMA è compreso tra il 25 e il 60 per cento.
I momenti più critici nell’interruzione si verificano nel 50 per cento dei casi prima che inizi qualunque trattamento e 2/3 dei pazienti abbandona prima di iniziare procedure di 2° livello (FIVET/ICSI).
Le ragioni di abbandono in PMA sono principalmente: lo stress emotivo, la scarsa prognosi, il rifiuto dei trattamenti e problemi di relazione.
In termini generali, le cause dell’abbandono possono essere raggruppate in tre fattori. Vediamoli.
1. fattori legati alla coppia/individuo: si tratta di paure e timori nei riguardi delle procedure, della salute dei futuri bambini, e di aspettative spesso non realistiche;
2. fattori legati al Centro medico: accesso alle cure, tempi di attesa, organizzazione dello staff di lavoro, deficit d’informazione e difficoltà nella comunicazione, mancanza di supporti psicologici;
3. fattori legati al trattamento in sé: complessità delle terapie, numero di iniezioni, difficoltà a inserire i numerosi controlli nel proprio contesto di lavoro, logistica eccetera.
Dott.ssa Luciana De Lauretis

Quando deve avvenire il transfer degli embrioni, in terza o in quinta/sesta giornata dalla fecondazione?

Una volta effettuata la tecnica di fecondazione in vitro più appropriata per la coppia, l’embriologo osserva meticolosamente lo sviluppo degli embrioni che ne derivano. La valutazione della qualità degli embrioni ottenuti viene eseguita quotidianamente così da selezionare il o gli embrioni migliori da trasferire nella cavità uterina della donna. Ad oggi, il transfer viene eseguito per lo più in terza (D3) o in quinta/sesta giornata (D5/D6) dal prelievo ovocitario. In D3 l’embrione ottimale è allo stadio di 6/8 cellule, in D5/D6 si trova ad uno stadio di sviluppo più avanzato, detto blastocisti. Se per una coppia si hanno molti embrioni a disposizione, la coltura in vitro prolungata a blastocisti ha il vantaggio di selezionare in laboratorio gli embrioni più “forti” che riescono a raggiungere tale stadio di maturazione (non tutti gli embrioni ne sono capaci) e quindi trasferirli in utero ed eventualmente congelare i sovrannumerari.

Fisiologicamente, in quinta/sesta giornata l’embrione ha già percorso la tuba dove è avvenuto l’incontro tra spermatozoo e ovulo, e si trova allo stadio di blastocisti all’interno della cavità uterina, dove avverrà l’annidamento. È dunque ragionevole pensare che il risultato migliore, in seguito ad un ciclo di fecondazione assistita, si ottenga in seguito al transfer effettuato in D5/D6, in quanto si cerca di mimare ciò che avviene in natura. In realtà vi sono delle situazioni in cui è preferibile il transfer in D3 e dei casi in cui è preferibile il transfer in D5/D6.

Il transfer in D3 viene privilegiato nel caso in cui la paziente sia giovane (<35 anni) ed al primo ciclo di fecondazione assistita, in quanto la coltura in vitro fino alla quinta/sesta giornata potrebbe non portare allo sviluppo di blastocisti e ciò comporterebbe un annullamento del transfer, con conseguente insoddisfazione della coppia. Risulta inoltre più favorevole il transfer in D3 nel caso in cui vi siano pochi embrioni disponibili per la coppia, percui risulterebbe inutile la selezione a blastocisti.

D’altro canto, il transfer in D5/D6 viene preferito per migliorare la selezione degli embrioni da trasferire alle coppie che hanno vissuto ripetuti fallimenti di cicli di fecondazione in vitro, gravidanze biochimiche o aborti in seguito a IVF, e per le coppie per cui sono disponibili molti embrioni di ottima qualità in D3 percui risulta difficile, se non impossibile, scegliere solo dal punto di vista osservazionale il o gli embrioni migliori da trasferire. Il transfer in D5/D6 è preferibile anche per le donne che hanno ricorso all’ovodonazione in quanto gli embrioni derivano da ovociti di donne giovani e quindi con buone probabilità di dare gravidanza. Consente inoltre di trasferire un unico embrione evitando così il rischio di gravidanze plurime. Infine, quando una coppia decide di sottoporre i suoi embrioni alla diagnosi genetica preimpianto (PGD/PGS), ciascun embrione viene privato di 1 o 2 cellule in D3 per l’indagine genetica. I risultati genetici si ottengono dopo circa 48 ore, quindi si attende lo sviluppo in vitro a blastocisti, e si trasferiscono solamente quelle geneticamente “sane”.

Dott.ssa Stefania Luppi