Quando deve avvenire il transfer degli embrioni, in terza o in quinta/sesta giornata dalla fecondazione?
Una volta effettuata la tecnica di fecondazione in vitro più appropriata per la coppia, l’embriologo osserva meticolosamente lo sviluppo degli embrioni che ne derivano. La valutazione della qualità degli embrioni ottenuti viene eseguita quotidianamente così da selezionare il o gli embrioni migliori da trasferire nella cavità uterina della donna. Ad oggi, il transfer viene eseguito per lo più in terza (D3) o in quinta/sesta giornata (D5/D6) dal prelievo ovocitario. In D3 l’embrione ottimale è allo stadio di 6/8 cellule, in D5/D6 si trova ad uno stadio di sviluppo più avanzato, detto blastocisti. Se per una coppia si hanno molti embrioni a disposizione, la coltura in vitro prolungata a blastocisti ha il vantaggio di selezionare in laboratorio gli embrioni più “forti” che riescono a raggiungere tale stadio di maturazione (non tutti gli embrioni ne sono capaci) e quindi trasferirli in utero ed eventualmente congelare i sovrannumerari.
Fisiologicamente, in quinta/sesta giornata l’embrione ha già percorso la tuba dove è avvenuto l’incontro tra spermatozoo e ovulo, e si trova allo stadio di blastocisti all’interno della cavità uterina, dove avverrà l’annidamento. È dunque ragionevole pensare che il risultato migliore, in seguito ad un ciclo di fecondazione assistita, si ottenga in seguito al transfer effettuato in D5/D6, in quanto si cerca di mimare ciò che avviene in natura. In realtà vi sono delle situazioni in cui è preferibile il transfer in D3 e dei casi in cui è preferibile il transfer in D5/D6.
Il transfer in D3 viene privilegiato nel caso in cui la paziente sia giovane (<35 anni) ed al primo ciclo di fecondazione assistita, in quanto la coltura in vitro fino alla quinta/sesta giornata potrebbe non portare allo sviluppo di blastocisti e ciò comporterebbe un annullamento del transfer, con conseguente insoddisfazione della coppia. Risulta inoltre più favorevole il transfer in D3 nel caso in cui vi siano pochi embrioni disponibili per la coppia, percui risulterebbe inutile la selezione a blastocisti.
D’altro canto, il transfer in D5/D6 viene preferito per migliorare la selezione degli embrioni da trasferire alle coppie che hanno vissuto ripetuti fallimenti di cicli di fecondazione in vitro, gravidanze biochimiche o aborti in seguito a IVF, e per le coppie per cui sono disponibili molti embrioni di ottima qualità in D3 percui risulta difficile, se non impossibile, scegliere solo dal punto di vista osservazionale il o gli embrioni migliori da trasferire. Il transfer in D5/D6 è preferibile anche per le donne che hanno ricorso all’ovodonazione in quanto gli embrioni derivano da ovociti di donne giovani e quindi con buone probabilità di dare gravidanza. Consente inoltre di trasferire un unico embrione evitando così il rischio di gravidanze plurime. Infine, quando una coppia decide di sottoporre i suoi embrioni alla diagnosi genetica preimpianto (PGD/PGS), ciascun embrione viene privato di 1 o 2 cellule in D3 per l’indagine genetica. I risultati genetici si ottengono dopo circa 48 ore, quindi si attende lo sviluppo in vitro a blastocisti, e si trasferiscono solamente quelle geneticamente “sane”.
Dott.ssa Stefania Luppi
Quali sono i vantaggi della maturazione in vitro degli ovociti e a chi e’ rivolta?
La maturazione in vitro degli ovociti è una tecnica di (PMA) di secondo livello, cioè un metodo ad alta tecnologia per la terapia dell’infertilità.
In natura ogni mese in media un solo follicolo arriva a maturazione e scoppia durante l’ovulazione per liberare l’ovocita nella tuba e permettergli di essere fecondato. In un ciclo di fecondazione in vitro invece si cerca di ottenere il maggior numero possibile di ovociti maturi per selezionare quelli con le caratteristiche migliori per l’inseminazione. Per ottenere questo, la donna deve essere sottoposta ad una stimolazione ormonale adeguata.
Vi sono dei casi in cui la stimolazione ormonale non è possibile, allora si può ricorrere alla maturazione in vitro degli ovociti (IVM), con successiva ICSI degli ovociti maturati. Tale tecnica minimizza il rischio di incorrere in iperstimolazione ovarica OHSS ed è inoltre rivolta alle donne che soffrono di sindrome dell’ovaio micropolicistico (PCOS).
La maturazione in vitro degli ovociti è inoltre una tecnica consigliata alle donne che devono preservare la loro fertilità, prima di sottoporsi ad un trattamento oncologico farmacologico, o chirurgico di asportazione di ovaie. La procedura consiste nel sottoporre la donna a dosi di farmaci minime o nulle e ad un paio di ecografie a 8-9 giorni dall’inizio delle mestruazioni così da valutare il momento adatto al prelievo degli ovociti immaturi. Tali ovociti vengono poi fatti maturare in vitro, all’interno di un terreno specifico addizionato di specifici ormoni, lasciati in incubatori appositi per circa 30 ore. Una volta ottenuti gli ovociti maturi essi vengono utilizzati per la iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI).
Sebbene i tassi di gravidanza in seguito maturazione in vitro degli ovociti siano leggermente inferiori a quelli della fecondazione in vitro classica, gli esperti stanno trovando delle soluzioni promettenti andando a migliorare i protocolli clinici e le condizioni di coltura degli ovociti immaturi.
Dott.ssa Stefania Luppi
La fecondazione in vitro si articola in 3 fasi:
Fase 1: la stimolazione ormonale
Le terapie da prevedere prima di potersi sottoporre a una fecondazione in vitro consistono nella somministrazione di ormoni (gonadotropine) finalizzata alla formazione di più follicoli su ciascun ovaio. La dose di gonadotropine impiegata varia da paziente a paziente, in quanto è personalizzata in base alle sue caratteristiche cliniche, alla funzionalità del suo ovaio e alla causa d’infertilità. La stimolazione ormonale rappresenta la prima fase necessaria perché si possa procedere alla fecondazione in vitro. È appunto necessario che si arrivi a ottenere una produzione maggiore di follicoli sull’ovaio e quindi di ovociti prelevabili. In questo caso il rischio di gravidanza multipla non dipende dal numero di ovociti, ma da quello di embrioni inseriti in utero. D’altra parte tale dosaggio deve essere, comunque, limitato al fine di ridurre l’insorgenza di importanti effetti collaterali, quali la Sindrome da iperstimolazione ovarica, determinata da un eccessivo numero di follicoli prodotti. Esistono, poi, diversi schemi terapeutici finalizzati a ottenere anche una migliore qualità ovocitaria. Allo stesso tempo, per evitare lo scoppio fisiologico dei follicoli, raggiunta una certa dimensione, si provvede prima o durante la terapia a somministrare dei farmaci, analoghi del GnRh o antagonisti del GnRh, idonei per determinare lo scoppio del follicolo alla giusta dimensione. Lo sviluppo follicolare viene poi monitorizzato attraverso controlli ecografici transvaginali e dosaggi dell’ormone estradiolo in media ogni 2/3 giorni.Quando il diametro medio della maggior parte dei follicoli ha raggiunto una dimensione di 17/19 millimetri, si procede alla somministrazione di un ormone hCG e si procede al prelievo ovocitario dopo circa 34/36 ore da questa somministrazione. [seodiv]
Fase 2: il prelievo ovocitario o pick-ovocitario
Il prelievo ovocitario (pick-ovocitario) è, dopo la stimolazione ormonale, la seconda fase della procedura di fecondazione in vitro. Esso viene eseguito 34/36 ore dopo la somministrazione di una dose di gonadotropina corionica (Pregnyl, Gonasi o Ovitrelle), che ha lo scopo d’indurre la maturazione finale degli ovociti. Tale procedura è un intervento chirurgico, cosiddetto minore, che viene eseguito in anestesia locale vaginale o, il più delle volte, con una sedazione conscia che consente al chirurgo di effettuare con serenità l’atto operatorio e alla paziente un pronto risveglio con possibilità di tornare a casa nella stessa giornata. Il prelievo ovocitario avviene per via vaginale e dunque rappresenta una modalità poco invasiva e ben accettata dalla paziente. Si esegue utilizzando un lungo ago montato sulla sonda ecografica vaginale con la quale si effettuano i monitoraggi. Una volta raggiunte le ovaie si aspirano tutti i follicoli che si sono formati. In alcuni casi si può procedere al lavaggio del singolo follicolo con adeguato mezzo di coltura, per raccogliere quanti più ovociti possibili. La durata del prelievo è tra i 15/20 minuti circa.
Fase 3: il transfer embrionario
Il transfer embrionario costituisce la fase finale della fecondazione in vitro ed è un momento estremamente delicato della procedura. Esso avviene dopo un intervallo dal prelievo ovocitario che va da 2 a 5/6 giorni secondo le strategie scelte. Per transfer embrionario si intende la deposizione degli embrioni in utero. Tale procedimento viene eseguito in maniera delicata e con due modalità: “clinical touch” ed eco guidato.Il metodo “clinical touch” consiste nel depositare gli embrioni in utero senza l’ausilio di alcun mezzo ed è legato all’abilità ed esperienza dell’operatore che deve rendere il tutto quanto meno possibile traumatico senza toccare il fondo dell’utero con la punta del catetere. L’atraumaticità dell’operazione è fondamentale dato che, vari studi, hanno dimostrato che anche piccoli traumi possono determinare contrazioni uterine che creano svantaggi alla riuscita della tecnica.Il metodo eco-guidato viene eseguito con la sonda ecografica che permette di vedere il punto in cui si inserisce il catetere e si depositano gli embrioni. Tale procedura è molto utile in caso di transfer difficili per particolari conformazioni anatomiche dell’utero della paziente.
Dott. Fulvio Cappiello
La FIVET come non l’avete mai vista: mostra fotografica
Le ultime stime ISTAT segnano in crescita le coppie che affrontano problematiche di infertilità: in Italia sono ogni anno tra le 60.000 e le 80.000 (il 20-25% delle 300.000 nuove unioni).
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) attesta il fenomeno in circa il 15-20% di coppie nei paesi industriali avanzati: tra questi, aumentano le persone che scelgono di ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita.
La biologa cagliaritana, Nicoletta Maxia, responsabile del centro di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) della clinica San Carlo a Paderno Dugnano (Milano) ha pensato di cogliere da un punto di vista diverso, la tecnica della fecondazione in vitro.
Procrearte è il nome della “personale” allestita per la prima volta in Sardegna.
Trenta immagini catturate grazie al microscopio e rielaborate utilizzando sofisticate tecniche per amplificarne gli effetti cromatici.
Un modo nuovo per raccontare le fasi di una vita che si forma grazie al procedimento in laboratorio di Fivet, Icsi e Imsi.
I soggetti che troviamo in primo piano sono scatti che segnano il passaggio dalla fecondazione dei gameti al preimpianto dell’embrione: si parte così dagli spermatozoi utilizzati per l’iniezione intracitoplasmatica nell’ovulo, per arrivare all’endometrio e allo stadio di impianto dell’embrione nell’utero materno.
Un modo colorato e fantasioso per raccontare l’esperienza della fecondazione in vitro, che si contrappone ai rapporti troppo spesso freddi e schematici, raccolti nelle schede dei pazienti.
Dalla Sardegna le opere della biologa-artista dedicate alla Fivet arriveranno presto in Lombardia.
Parla della Fivet il Prof. Rubens Fadini, che dirige il “Centro di Medicina della Riproduzione Biogenesi” presso “Istituti Clinici Zucchi” di Monza e “Istituti Ospedalieri Bergamaschi”.
Al seminario annuale promosso dall’azienda farmaceutica Ferring “Esperienze di Procreazione Medico Assistita in Lombardia” è intervenuto il Prof. Rubens Fadini sulla fecondazione in vitro, affrontando le tematiche connesse al trasferimento degli embrioni, alla possibilità del loro congelamento, alle tecniche di scongelamento.
Di seguito riportiamo l’intervista al Prof. Fadini sulla Fecondazione in Vitro.
1. In cosa consiste la tecnica della fecondazione in vitro?
In senso stretto, l’espressione “fecondazione in vitro” si riferisce all’ottenimento in laboratorio dell’unione (fecondazione) della cellula femminile (oocita) con quella maschile (spermatozoo) con la formazione di un embrione.
Più estesamente, è un approccio terapeutico specifico all’infertilità di coppia. Essa rappresenta, infatti, la procedura di “procreazione medicalmente assistita” (PMA) di secondo livello, cioè un metodo ad alta tecnologia per la terapia dell’infertilità.
Dopo aver proceduto alla diagnosi dell’infertilità, mediante un semplice iter diagnostico, e aver osservato precise indicazioni e regole la fecondazione in vitro (FIVET e ICSI) è proposta alla coppia per favorire la soluzione dell’infertilità.
In preparazione alla procedura, la donna è sottoposta a stimolazione ovarica, a monitoraggio ecografico e ormonale per circa 12-14 giorni. E’ sottoposta, quindi, a prelievo degli ovociti che sono inseminati in laboratorio (in vitro) con gli spermatozoi del partner, allo scopo di generare embrioni che, dopo due o cinque giorni di sviluppo in vitro, sono trasferiti nell’utero della donna.
2. Ruolo della stimolazione ovarica, rischi possibili e utilità di una personalizzazione della stimolazione
La capacità di un singolo oocita umano di generare una gravidanza è fisiologicamente limitata, anche nelle donne fertili. Per tale ragione, la PMA si fonda sulla necessità di eseguire una “stimolazione ovarica”.
Utilizzando l’ormone FSH (ormone che stimola la crescita dei follicoli) è possibile indurre la crescita di numerosi follicoli (multi-follicolare) che sono precisamente “temporizzati” nel loro sviluppo (monitoraggio ecografico e ormonale della crescita follicolare multipla) e quindi prelevati (prelievo degli ovociti dai follicoli ovarici). Il maggior numero di ovociti compensa la ridotta capacità di sviluppo e fecondazione in vitro del singolo oocita.
In alcuni casi, può accadere che la stimolazione ovarica induca una risposta elevata, consistente nella crescita di un eccessivo numero di follicoli ovarici e, per effetto di ciò, si può manifestare la cosiddetta “sindrome da iperstimolazione ovarica”. Condizione questa che può e deve essere evitata con un’appropriata scelta terapeutica, considerando i peculiari fattori di rischio di ogni singola donna.
Quest’approccio terapeutico tiene conto di alcuni importanti elementi, quali l’età, la riserva ovarica (valutata sulla base del dosaggio ematico degli ormoni FSH e Antimulleriano), il peso e la personale storia clinica. La preliminare e attenta valutazione di tutti questi fattori consente di “personalizzare” la terapia identificando la dose appropriata dei farmaci da somministrare per ottenere una sufficiente crescita multi-follicolare impedendo l’eccessiva risposta ovarica con le sue conseguenze.
Purtroppo, al contrario, c’è una categoria di pazienti che ha una scarsa o nulla probabilità di sviluppare una “sindrome da iperstimolazione ovarica”, queste sono le pazienti che hanno un’insufficiente riserva ovarica ed hanno anche scarsa possibilità di rispondere alla stimolazione ormonale producendo sempre un inadeguato numero di follicoli. È, comunque, importante individuare anche questa tipologia di pazienti per identificare la giusta quantità/qualità dei farmaci.
3. Può capitare che la donna, a seguito di stimolazioni ovariche, produca molti ovociti. Quanti ovociti si possono prelevare e fecondare in vitro?
Per le ragioni sopra discusse è auspicabile ottenere un certo numero di oociti tra cui poter scegliere i più idonei da sottoporre a fecondazione in vitro. Si pensa che il numero ideale vari da otto a quindici. In quanto, alcuni di questi oociti, potranno non essere idonei, altri non si feconderanno e alcuni, dopo la fecondazione, non produrranno embrioni evolutivi. Attualmente, dopo le modifiche alla Legge 40 apportate dalla Corte Costituzionale nel 2009, Il numero di ovociti da sottoporre a inseminazione non è più regolato dalla legge, ricordo che prima di questa sentenza potevano essere fecondati non più di 3 ovociti. Il numero di ovociti da utilizzare è a discrezione del medico e varia in relazione all’età femminile e la precedente storia clinica della coppia.
4. Laddove se ne fecondino più di uno, quanti embrioni vengono trasferiti?
Potendo utilizzare un maggior numero di ovociti risulta altamente probabile che si ottengano diversi embrioni e quindi si ponga la scelta sul numero di embrioni da trasferire. Alcune legislazioni del nord Europa impongono di trasferire non più di un embrione per volta (cosiddetto “trasferimento di un singolo embrione”). In altri paesi europei, come il nostro, questo principio non è regolamentato per legge ma la scelta è lasciata al medico, previo accordo con la coppia, dopo aver discusso rischi e benefici.
In Europa, comunque, vi è un generale accordo che gli embrioni da trasferire dovrebbero essere al massimo due. Si può, comunque, decidere di trasferire fino a tre/quattro embrioni in casi assolutamente particolari, in relazione alla qualità degli embrioni stessi, dell’età della donna e della storia clinica della coppia. Questa prudente modalità di approccio, come detta la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, è ispirata dalla necessità di evitare l’insorgenza di gravidanze plurime (tre o più gemelli) che rappresentano un grave rischio per la salute della donna e dei nascituri.
5. La legge italiana pone dei limiti sul trasferimento degli embrioni in utero?
No, nessuna restrizione. La nostra legislazione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, che ha modificato sostanzialmente l’approccio clinico e biologico alla PMA in Italia, stabilisce che sia il medico, informata la coppia, a prendere la decisione per il “benessere” della donna (ovvero nel rispetto dell’etica medica ottenere la maggiore efficacia della procedura ottenuta col minor rischio per la donna).
6. Quanti embrioni è possibile trasferire in utero? E quale è secondo lei il numero sopportabile e di successo…
Il risultato “ideale” di un trattamento di PMA è la nascita di un bambino sano a termine di gravidanza. Le gravidanze gemellari dovrebbero essere contenute in una misura del 10-20% rispetto a tutte le gravidanze, mentre si dovrebbe fare del proprio meglio per evitare le gravidanze trigemine, che in ogni caso non dovrebbero superare 1% del totale. Ogni centro di PMA dovrebbe essere in grado di sviluppare un metodo, basato sulla propria esperienza, in modo da indentificare il numero adeguato di embrioni da trasferire in ciascuna paziente, al fine di rendere massime le possibilità di ottenere la gravidanza, riducendo allo stesso tempo il rischio di gravidanze plurime.
7. Cosa avviene degli altri embrioni fecondati? Gli embrioni non utilizzati, si possono tutti congelare o devono avere caratteristiche specifiche, e poi come vengono conservati e per quanto tempo è possibile conservarli?
Gli embrioni in sovrannumero non utilizzati per il trasferimento in utero nello stesso ciclo in cui sono stati prodotti (cosiddetto “ciclo fresco”) possono essere conservati, a patto che abbiano adeguate caratteristiche morfologiche e di sviluppo. Bisogna, infatti, considerare che una parte consistente di embrioni prodotti in laboratorio, analogamente a quanto avviene naturalmente, non è idonea né al trasferimento in utero né alla conservazione.
Con le attuali efficienti tecniche di conservazione di cellule e tessuti, gli embrioni idonei sono facilmente conservati in azoto liquido a -196°C (cosiddetta crioconservazione) e possono essere mantenuti in appositi contenitori senza danno per diversi decenni.
Il congelamento degli embrioni è una procedura molto efficace e utile poiché riduce i rischi di plurigemellarità poiché consente di limitare il numero di embrioni da trasferire sul ciclo fresco crioconservando il sovrannumero. Quest’approccio, evitando i rischi, aumenta le probabilità di successo della PMA perché permette di sommare un maggior numero di tentativi (ovvero: possibilità di eseguire più tentativi con una sola procedura di stimolo e prelievo di ovociti). Attualmente, l’efficacia, in termini di gravidanze, utilizzando gli embrioni “congelati” è simile a quello ottenuta con embrioni “freschi”.
8. Quali sono i criteri di valutazione della qualità di un embrione?
La morfologia e la dinamica dell’embrione (ossia la sua forma con la presenza di frammenti e il numero di cellule presenti nell’embrione relativamente all’età dell’embrione stesso) sono attualmente i criteri più attendibili mediante i quali possiamo prevedere la capacità di un embrione di svilupparsi regolarmente, di impiantarsi nell’utero e di dar luogo a una gravidanza in evoluzione. Gli embrioni sono mantenuti in appositi incubatori e sono regolarmente controllati da esperti embriologi che monitorizzano la morfologia e la dinamica di crescita dell’embrione fino al momento del suo trasferimento (dopo due-cinque giorni in vitro).
Oltre alla competenza di esperti embriologi alcuni centri in Europa, tra cui il nostro, dispongono di un particolare strumento detto “Embryoscope” che consente l’osservazione dell’embrione durante tutta la giornata e la “continua” registrazione della dinamica del suo sviluppo. Questo, da un punto di vista pratico, permette di valutare con maggiore cura lo sviluppo in vitro dell’embrione. L’embryoscope potenzia, quindi, significativamente la nostra capacità di determinare con accuratezza la regolarità della crescita degli embrioni cercando di prevederne il possibile destino.
9. Se una coppia decide di utilizzare un embrione congelato, come avviene lo scongelamento dell’embrione?
L’embrione crioconservato è scongelato con tecnologie specifiche e ben codificate che dipendono dalla tecnica utilizzata per il congelamento. In pratica si controlla, con opportuna strumentazione, la velocità con cui l’embrione passa dalla temperatura dell’azoto liquido (-196°C) a quella ambiente rimuovendo le sostanze (crioprotettori) utilizzate per proteggere l’embrione durante il congelamento e dai possibili danni causati dalle basse temperature. Non tutti gli embrioni recuperano, dopo lo scongelamento, la capacità di continuare lo sviluppo ma la probabilità di sopravvivenza con le moderne tecniche è molto elevata, circa 80-90%.
10. Come viene preparato l’endometrio al transfer dell’embrione?
È possibile trasferire embrioni scongelati nel corso di un ciclo ovarico naturale, monitorando e temporizzando il momento dell’ovulazione, il transfer è eseguito alcun giorni dopo l’ovulazione. In questo modo si sincronizza lo stadio di sviluppo dell’embrione con la capacità recettiva dell’endometrio (il rivestimento mucoso della cavita uterina in cui avviene l’impianto). Questa modalità di preparazione potrebbe risultare organizzativamente impegnativa e rischia di annullare molti trasferimenti perché non tutti i cicli naturali sono idonei.
Pertanto, in alternativa al trasferimento in un ciclo naturale, è possibile guidare la preparazione (la crescita) dell’endometrio mediante la somministrazione sequenziale di estrogeno e progesterone in modo da mimare, indipendentemente dal momento in cui avviene l’ovulazione, gli stimoli ormonali a cui l’endometrio è sottoposto durante un normale ciclo ovarico. Questa modalità richiede alla donna circa 15-20 giorni di preparazione e monitoraggio.
11. Quali sono i fattori che determinano il fallimento dell’impianto?
I fattori che possono impedire l’impianto sono certamente molteplici, anche se rimangono in parte oscuri. Molti embrioni possono svilupparsi in vitro fino al momento del trasferimento in utero ma, poi, subire un arresto prima della fase dell’impianto nell’endometrio o subito dopo. Il non impianto o il precoce arresto può verificarsi per effetto di alterazioni dell’assetto cromosomico (cosiddette aneuploidie ossia uno o più cromosomi in eccesso o in difetto rispetto all’assetto cromosomico normale) analogamente a quanto avviene anche in natura. Bisogna, a questo proposito, ricordare che gli oociti sono generati durante la vita fetale e subiscono una maturazione lunghissima, circa 20-40 anni, che li espone a possibili danni cromosomici. Questa è la ragione per cui le patologie cromosomiche e gli aborti precoci sono maggiormente frequenti nelle donne che concepiscono, anche naturalmente, avanti nell’età.
L’assetto cromosomico, comunque, non spiega tutti i casi di fallimento di impianto. Infatti, embrioni cromosomicamente normali e identificati come tali tramite apposite analisi genetiche eseguite prima dell’impianto (screening di tutti i cromosomi eseguito prima di trasferirli nell’utero materno) non sempre riescono ad annidarsi nell’utero. Probabilmente altri fattori embrionali non-cromosomici contribuiscono a determinare la capacità di impianto.
La recettività dell’endometrio, inoltre, ha un ruolo importante nell’impianto, anche se meno determinante rispetto a quello dell’embrione. L’endometrio è recettivo all’impianto solo per alcuni giorni nel corso dell’intero ciclo mestruale. È possibile in alcuni casi che la recettività dell’endometrio non sia ben coordinata con la capacità d’impianto dell’embrione, anch’essa di durata limitata. Pertanto, una fase inadeguata dell’endometrio (troppo anticipato o ritardato rispetto allo stadio evolutivo dell’embrione) potrebbe essere un causa di fallito impianto.