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Fecondazione assistita e Covid-19: anche nell’ambito della fecondazione assistita l’emergenza sanitaria legata alla Covid-19 ha generato molte preoccupazioni sia per gli operatori sanitari sia per le coppie che stanno pianificando la propria famiglia.

La pandemia e i trattamenti di procreazione medicalmente assistita

La pandemia ha portato alla sospensione dei trattamenti di procreazione medicalmente assistita. Per le coppie coinvolte – come ha sottolineato ad Ansa il ginecologo Antonino Guglielmino, presidente della Società Italiana della Riproduzione Umana (SIRU) – “si tratta di un temporaneo ma grave disagio, da affrontare con la corretta informazione e con equilibrio emotivo”.

La task force

La SIRU, Società Italiana di Riproduzione Umana, ha attivato due task force di specialisti a disposizione dei pazienti e degli operatori sanitari per la valutazione dei rischi materno-fetali-neonatali associati all’infezione Covid-19 in gravidanza. È possibile usufruire di un servizio online e pianificare un contatto video giornaliero, che garantisce aggiornamenti e raccomandazioni per gli operatori sanitari e le coppie che cercano informazioni e assistenza.

Il servizio

Il servizio di supporto è multidisciplinare: due task force, una composta da infettivologi ed esperti in medicina della riproduzione, l’altra da psicologi e psicoterapeuti. Quest’ultima, in particolare, è dedicata alle coppie che a causa della pandemia sono costrette ad attendere il superamento della fase di emergenza per realizzare il proprio sogno di diventare genitori.

“Rimandare non significa rinunciare” – conclude Guglielmino – “ci stiamo preparando ad una lenta ripresa dell’attività assistenziale nella prospettiva di convivenza con il coronavirus”.

 

Fonti:

ANSA Salute&Benessere

SIRU – Società Italiana di Riproduzione Umana

I dati della “Relazione annuale sullo stato d’attuazione della Legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA)” – trasmessa al Parlamento dal Ministero della Salute il 28 giugno 2018 – non lasciano spazio a dubbi: in Italia i bebè che vengono concepiti con la fecondazione assistita sono in aumento. Grazie alla fecondazione assistita, nel 2016 nel nostro Paese sono nati ben 13.582 bimbi, di cui 2.125 con la fecondazione omologa e 1.457 con la eterologa (cioè con l’uso di ovuli e spermatozoi donati da esterni alla coppia); questo valore è superiore al numero di nati che si era osservato nel 2015 (12.836) ed equivale a circa il 3% del numero totale di nati nel 2016, che secondo l’ISTAT ammonta a 474.438.

L’aumento dei bambini concepiti in provetta registrato nel 2016 – rispetto all’anno precedente –  risulta legato all’aumento del numero di coppie che sono ricorse alla fecondazione assistita (da 74.292 a 77.522) e dei cicli effettuati (da 95.110 a 97.656).

 

L’aumento di nati è merito del miglioramento delle tecniche di PMA 

L’aumento di nascite ottenute con la fecondazione assistita nel 2016 è attribuibile al miglioramento sia della fecondazione eterologa sia di quella omologa mediante crioconservazione degli ovociti e degli spermatozoi.

In diminuzione appaiono invece le gravidanze gemellari e anche le trigemine, queste ultime in linea con la media europea.

La Relazione documenta l’aumento progressivo delle donne ultraquarantenni che accedono alle tecniche di fecondazione assistita: nel 2016 erano il 35,2% contro il 20,7% nel 2005. Resta costante l’età media delle donne che si sottopongono alla fecondazione omologa a fresco (36,8 anni). Per quanto riguarda la fecondazione eterologa, le donne erano di età più alta (41,4 anni) se la donazione è di ovociti, mentre sono risultate un po’ più giovani (35,2 anni) se la donazione è di seme maschile.

La Relazione evidenzia inoltre che sono i Centri pubblici ad effettuare il maggior numero di trattamenti di fecondazione assistita e di cicli di trattamento, questo nonostante i Centri privati siano in numero superiore (101 contro 64); difatti:

  • il 35% dei Centri è pubblico ed effettua il 37,1% dei cicli
  • il 9,8% è privato convenzionato ed effettua il 28,8% dei cicli
  • il 55,2% è privato ed effettua il 28,8% dei cicli

 

Invariate le percentuali di successo delle tecniche di fecondazione assistita

Dalla Relazione si evince che le percentuali di successo delle tecniche di fecondazione omologa risultano pressoché invariate: la percentuale di successo per la fecondazione omologa di I livello risulta pari al 10,9% (ed era il 10,5% nel 2015), mostrando un aumento nel caso delle tecniche di scongelamento di embrioni (27,5% contro il 26,2% nel 2015) e una flessione per le tecniche da scongelamento di ovociti (16,3% contro il 16,6% nel 2015). L’elemento che maggiormente condizione il buon esito delle tecniche di fecondazione assistita risulta essere l’età della donna: il rapporto tra gravidanze ottenute e cicli iniziati mostra di ridursi progressivamente all’aumentare dell’età, a  cui accompagna parallelamente un aumento del rischio che la gravidanza ottenuta non si concluda con un parto: le percentuali di successo delle tecniche di fecondazione assistita hanno mostrato di ridursi linearmente con l’aumento dell’età, passando dal 23,9% nelle donne con meno di 35 anni fino al 4,5% per quelle con oltre 43 anni.

 

Fonti

  1. http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=3411
  2. http://old.iss.it/rpma/
  3. http://www.sossanita.org/archives/3143

 

 

 

Che ruolo ha la tecnologia del time-lapse nella Fecondazione Assistita?

I continui progressi ottenuti nel campo della Biologia della Riproduzione sono strettamente legati dell’evoluzione tecnologica, guidata dall’evoluzione delle conoscenze sulla fisiologia della riproduzione.

Basti pensare all’utilizzo del laser, applicato alla biopsia dell’embrione, per la diagnosi preimpianto.

Recentemente è stato messo a punto un sistema denominato time – lapse”, che consente la costante osservazione dello sviluppo embrionario, mediante il posizionamento di piccole telecamere all’interno dell’incubatore. Ciò ha permesso l’osservazione diretta di eventi biologici cui sarebbe stato impossibile assistere e consente di eseguire i necessari e ripetuti controlli all’embrione in coltura, senza doverlo sottoporre allo stress termico/fisico/chimico richiesto dal convenzionale controllo al microscopio, necessariamente condotto dopo estrazione dell’embrione dall’incubatore.

Dott.ssa Marilena Vento

Cosa succede a livello emotivo? Quale il giusto approccio psicologico per supportare la coppia?

 

La reazione emotiva al fallimento della FIVET (anche a più di un tentativo) dipende sostanzialmente dalla capacità della coppia di far fronte alle difficoltà della vita.
In psicologia si utilizza il termine “resilienza”, intesa come quella capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti. Le risposte degli individui alle malattie sono quindi chiaramente diverse a seconda, sia delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa, sia delle caratteristiche personali, intese come stili cognitivi, emotivi e relazionali. Ognuno di noi ha, inoltre, un modo diverso di percepire gli eventi e di ritenere che gli eventi della sua vita siano prodotti dai propri comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla propria volontà.

 

La reazione emotiva al fallimento della FIVET varia in base ai caratteri: c’è chi si colpevolizza e chi sa prendere la distanza

Ci sono quindi tipologie di persone più propense a colpevolizzarsi, di solito le più difficili da trattare in tali contesti di PMA perché perdono molta energia a cercare le cause disperdendola, invece, rispetto alla ricerca della soluzione. Ce ne sono altre, invece, capaci di saper prendere distanza dalle responsabilità degli eventi e di concentrarsi su possibili soluzioni alternative. Pensare la propria sterilità di coppia secondo un’attribuzione causale esterna, protegge la coppia da sentimenti di vergogna e bisogno di isolamento, rendendola più libera nelle richieste di aiuto e nella ricerca di una nuova ristrutturazione della propria vita.

 

Solo un’attenta analisi permette allo psicologo di gestire la reazione emotiva al fallimento della FIVET

Un’attenta analisi da parte del clinico sulle modalità personali dell’individuo di affrontare le difficoltà della vita permetterà allo psicologo di prevedere quale sarà la reazione emotiva al fallimento della FIVET e quale interpretazione darà quella persona all’insuccesso del proprio progetto procreativo. In questo modo sarà possibile andare a individuare meglio quali possano essere le alternative al fallimento. Compito dello psicologo è, infatti, saper distinguere le personalità più rigide da quelle più flessibili, lavorare sul senso di colpa e sulle strategie di “coping” (gestione attiva) che permettono alle persone d’individuare soluzioni alle proprie difficoltà, aiutandole a superare, quando necessario, quelle restrizioni mentali inconsapevoli, dettate da vecchie credenze implicite della persona, che non le consentono di poter procedere ed evolversi sulla linea del ciclo vitale.
Dott.ssa Angela Petrozzi

Qualunque forma essa prenda, la diagnosi d’infertilità scuote le radici profonde dell’immagine di sé costituendo un’esplosione emotiva che necessita, quasi sempre, di un intervento psicoterapico, volto ad aiutare le persone a superare l’angoscia, il dolore, la deprivazione.
L’intervento psicoterapico ha lo scopo, in primis, di spingere la coppia verso una ridefinizione dell’identità, incanalando e sublimando il bisogno di prendersi cura verso un’immagine più libera, radicandola nelle personali capacità creative, piuttosto che non restringendola alle sole capacità procreative.

 

L’intervento psicoterapico deve servire anche a scindere atto sessuale e fecondazione

Un’altra funzione che ha l’intervento psicoterapico, all’interno dei percorsi di PMA, consiste nell’aiutare la coppia a recuperare l’intimità sessuale inevitabilmente violata dalle tecnologie. Molto spesso il ricorso alle tecniche di PMA si ripercuote negativamente sulla vita sessuale della coppia, con conseguente calo della libido in entrambi i sessi, fino alla disfunzione erettile nell’uomo e con una riduzione della fertilità nella donna. L’elaborazione della separazione tra atto sessuale e fecondazione è un punto cruciale dell’intervento psicoterapico che può condurre ad accettare una declinazione della sessualità fondata sul senso di appartenenza affettiva e a facilitare il superamento del vissuto mortifero connesso a una generatività desessualizzata.

 

Anche dopo la nascita del figlio l’intervento psicoterapico serve a gestire sentimenti complessi

Inoltre, il grado di elaborazione da parte degli adulti dei vissuti angosciosi connessi alla PMA, induce a ritenere altamente opportuno l’intervento psicoterapico specifico per le coppie anche successivamente alla nascita del figlio così tanto atteso, sia perché la realizzazione del desiderio costringe i genitori a confrontarsi con quel groviglio di sentimenti complessi che l’insuccesso riproduttivo aveva accantonato, sia perché i bambini voluti caparbiamente sono esposti più degli altri al rischio di rimanere soffocati in un rapporto esclusivo con i genitori, in particolare con la madre, privati della possibilità di accedere ad altri investimenti relazionali.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Che tipo di supporto psicologico può essere indicato dopo la nascita di un bambino nato grazie a una delle tecniche di procreazione medicalmente assistita? Come spiegare al figlio la sua storia?

 

La coppia che riesce con successo ad avere un figlio grazie all’aiuto delle tecniche di PMA difficilmente si pone il quesito su cosa dire al proprio figlio rispetto alla storia procreativa. Tuttavia capita che alcune coppie chiedano aiuto a uno psicologo per capire cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA rispetto alla sua origine. Il problema sotteso a tale quesito è rappresentato dal segreto, non dal suo contenuto. Come ricorda Winnicott: “I bambini non chiedono che venga loro risparmiata la verità, qualunque essa sia, ma che gli venga consegnata con tatto e onestà”.

 

Cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA? Solo la verità espressa con delicatezza e modi idonei alla sua età

“Mamma e papà ti hanno desiderato talmente tanto che, visto che tardavi ad arrivare, hanno chiesto aiuto a un dottore perché aiutasse i due semini, della mamma e del papà, a incontrarsi e a restare insieme, perché tu potessi crescere nella pancia della mamma per poi nascere e farti abbracciare anche dal papà”. Si tratta di una storia del tutto naturale, che non si discosta tanto dal suo iter fisiologico e del tutto semplice ed esaustiva da raccontare a un bambino.

 

Per molte coppie cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA nasconde quesiti più complessi

Tuttavia, capita che alcune coppie che hanno avuto un figlio grazie ad aiuti esterni, si pongono alcuni quesiti rispetto a cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA: “Cosa diremo a nostro figlio?”. Una domanda del genere potrebbe, tuttavia, nascondere questioni diverse, più personali, relative alla storia della coppia stessa. Dietro a ogni singola storia dell’individuo c’è un “mandato” generazionale inconsapevole, ossia delle aspettative di solito trasmesse dalla propria famiglia di origine sul ruolo che quell’individuo avrà nella storia familiare. Se si instaura un “gap” tra le aspettative implicite degli altri familiari e quello che l’individuo riesce a realizzare, si insinua nella persona una dissonanza emotiva che non le consente di godere appieno di quello che invece è stata capace di realizzare. Compito del clinico è interessarsi con rispetto ai quesiti che pongono le persone e saperle guidare a ritrovarsi all’interno di un percorso per alcuni versi divergente rispetto a quello atteso.

 

Situazione più complessa è spiegare al proprio figlio che è nato grazie all’eterologa

Questione del tutto diversa è quella che pone una coppia che ha fatto ricorso a una fecondazione eterologa. Qui il quesito su “cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA” o meglio da eterologa, si affaccia abbastanza precocemente nella coppia, fin dalle prime fasi decisive rispetto al percorso da intraprendere. Anche in questo caso non ci sono risposte identiche per tutti, la risposta va costruita insieme alla singola coppia rispettando quella che è la storia familiare che la coppia si porta dietro. Il clinico deve intercettare il significato che rappresenterebbe per quella coppia avere un figlio con l’aiuto di un gamete esterno alla coppia stessa.

 

Occhio a “risposte facili” trovate sul web: ognuno ha la sua storia e necessita di risposte diverse

Spesso il web spinge le persone a ricercare risposte immediate a ogni singolo problema. Nell’ambito delle questioni psicologiche, soprattutto, bisogna diffidare da risposte predefinite. “Quello che è meglio per me potrebbe non essere buono per te”. Il ruolo dello psicologo è quello di saper ascoltare con orecchio esperto cosa gli sta chiedendo veramente quella coppia ed aiutarla a costruire insieme una risposta, la più personale possibile.

Dott.ssa Angela Petrozzi

Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione lungo

Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVET di stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione corto

Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.

Dott. Placido Borzì

I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA, se valutati in anticipo, possono aiutare i medici a reinstradare le pazienti nell’iter terapeutico.

Dopo aver descritto i motivi e le principali situazioni che portano una coppia al drop-out della PMA, ovvero a decidere di abbandonare il percorso diagnostico-terapeutico per l’infertilità, è opportuno, infatti, esaminare i cosiddetti fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA.
Valutare per tempo i suddetti fattori, dunque, può essere un buon aiuto per gli specialisti a individuare le coppie più propense all’abbandono e a intervenire nel modo giusto per far capire l’importanza dell’aderenza all’iter terapeutico.

Tre le variabili ascrivibili tra i fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA

I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA sono legati prevalentemente a tre variabili. Analizziamoli nel dettaglio.

  1. Storia dell’infertilità: abbandonano più facilmente le coppie che:
  • hanno già avuto un figlio;
  • in cui la causa dell’infertilità è maschile;
  • le donne con endometriosi e con problemi cronici di ovulazione.
  1. Tipo di trattamento: abbandonano più facilmente le pazienti:
  • sottoposte a regimi terapeutici molto aggressivi;
  • quelle in cui è stato recuperato un basso numero di ovociti, in cui l’embryo transfer non è stato effettuato per mancata fertilizzazione degli ovuli;
  • chi ha avuto una gravidanza esitata in aborto;
  • che hanno aspettato un tempo troppo lungo tra un trattamento e un altro.
  1. Tipologia di pazienti: correlati negativamente al completamento dei trattamenti sono:
  • età avanzata;
  • fattori psico-sociali;
  • difficoltà economiche;
  • problemi di relazione di coppia;
  • basso livello sociale;
  • fattori personali quali idiosincrasia, motivi etici, ansia e depressione, logistica, paura per la propria salute, altre scelte come l’adozione.

Riferimenti bibliografici
1. Verhagen et al, Human Reproduction 2008, 23: 1793-99
2. Gameiro et al, Human Reproduction Update 2012, Nov, 18(6): 652-69
3. M. Brandes et al, Human Reproduction 2009 vol 24, N° 12: 3127-35
4. S. Gameiro et al, Human Reproduction Update, 2012, vol 0, pp 1-12
5. Domar et al, Human Reproduction 2012, n°4, pp 1073-79

Dott.ssa Luciana De Lauretis

L’infertilità può essere causa di depressione: mina il “progetto bambino” della coppia, isolandola

 

Diversi sono i vissuti psicologici che si sviluppano in seguito alla diagnosi d’infertilità o ancora peggio di sterilità. Indubbiamente l’infertilità può essere causa di depressione perché il mancato raggiungimento dello scopo “diventare genitore” nella maggior parte dei casi provoca veri e propri stati depressivi che coincidono con il fallimento e la perdita di un sogno, sentimenti di ansia, di colpa, isolamento, perdita di interessi, difficoltà di concentrazione, pensieri negativi, difficoltà del sonno e cambiamenti importanti nelle abitudini alimentari e sessuali.

 

Un segreto che isola socialmente e mina la coppia: l’infertilità può essere causa di depressione

Durante l’ovulazione della donna, la coppia vive l’ansia di un rapporto sessuale programmato finalizzato a procreare, all’arrivo della mestruazione arriva lo sconforto determinato dall’ennesimo fallimento. Le coppie si sentono diverse, non riescono in una cosa del tutto naturale, sviluppano sentimenti di vergogna e di colpa. Dunque l’infertilità può essere causa di depressione e diventare un segreto che li appesantisce e li isola dalle relazioni sociali. Si riscontrano tentativi di evitamento delle coppie con bambini e si osserva la preferenza per coppie simili. Spesso tali vissuti ricadono anche sull’equilibrio della coppia stessa. L’isolamento non si osserva soltanto in relazione agli “altri”, intesi quelli al di fuori della coppia, ma anche nei confronti del partner stesso, che talvolta viene tagliato “fuori”. Sempre più spesso la coppia si chiude rispetto al compagno/a, lo esclude dalle proprie visite specialistiche vissute come un peso. La coppia è messa a dura prova di resistenza. Tutto quello che la coppia ha costruito finora, sembra scomparire, non esistere più. La coppia deve rielaborare una perdita, quella di essere genitore.

 

L’infertilità può essere causa di depressione perché distrugge “il progetto bambino” che abita in noi da sempre

Prima ancora di nascere e di essere concepito, il bambino della coppia esiste nel loro immaginario. Durante l’infanzia, i bambini fantasticano di avere a loro volta un bambino nella pancia, il che corrisponde al desiderio di essere uguali ai loro genitori. L’infertilità può essere causa di depressione perché quando questo progetto non si realizza in età adulta è necessario elaborare un lutto come la perdita di un progetto importante, che affonda le sue radici nell’infanzia. A questo punto la coppia ha bisogno di un intervento specialistico che l’aiuti a ristrutturare la percezione di sé e di coppia.

 

Se la coppia sceglie la PMA occorrerà un supporto psicologico sin dall’inizio del percorso

Il fatto che l’infertilità può essere causa di depressione rende fondamentale necessità di attivare, per le coppie che accedono a un percorso PMA (procreazione medicalmente assistita), spazi di consulenza psicologica rivolti alla persona e alla coppia stessa. Questo significa garantire una consulenza alle persone prima di iniziare le singole procedure diagnostiche. Le coppie non devono soltanto essere informate, ma devono poter avere la possibilità di maturare un’accettazione consapevole della tecnica proposta.

Nasce quindi la necessità per lo psicologo di affiancare il medico fin dai primi colloqui. Poter osservare come le coppie rispondono fin da subito al carico emotivo che la PMA comporta significa, per lo psicologo, identificare precocemente le coppie più a rischio, quelle che necessitano di un maggiore e tempestivo intervento psicologico. In questo senso l’attività di consulenza non ha esclusivamente finalità terapeutica, ma anche carattere decisionale per le successive tappe da intraprendere. Lo psicologo comincerà a interessarsi alle credenze di quella coppia, cercherà di comprendere quale stile di risposta (coping) utilizza quella coppia solitamente nelle situazioni ansiogene e stressanti, cercherà di mettere in relazione i loro pensieri con le loro emozioni, tentando di anticipare come tutti questi vissuti potrebbero ricadere sulle relazioni. Lo psicologo proverà a prendere in considerazione tutti questi aspetti della persona con lo scopo principale di tenere la coppia in equilibrio, in una fase estremamente faticosa e turbolenta.

Dott.ssa Angela Petrozzi